Inflazione, l’Ocse segnala una risalita dei prezzi
Ad agosto i prezzi dell’Area sono aumentati dal 5,9% al 6,4%. Colpa dell’energia. In crescita anche l’indice del G7, stabile il dato core. Segnali di schiarita in Uk
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Investire sull’azionario a stelle e strisce può regalare opportunità di rendimento interessanti. Ma la crisi bancaria in corso e un quadro macro ancora incerto impongono di adottare una strategia riflessiva per non rimanere spiazzati di fronte a possibili correzioni di mercato. Ne è convinto Marco Pirondini, head of Equity di Amundi US, che punta su titoli di qualità e anticiclici per sfruttare a pieno il potenziale dei mercati.
Marco Pirondini, head of Equity di Amundi US
Oggi tutti faticano a fare previsioni. E il motivo è presto detto: i modelli macroeconomici, che sono costruiti su momenti normali, non riescono a riflettere i tanti shock che si sono susseguiti negli ultimi anni. I lockdown, la crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina, l’enorme liquidità riversata dal governo per sostenere imprese e consumatori: tutti questi fattori creano una volatilità fuori dal comune che offusca gli orizzonti predittivi. Ma alcune direttrici si riescono comunque a intravedere: dati la solidità dimostrata dal mercato del lavoro e il perdurare della pressione sulla componente inflattiva legata ai servizi, è prevedibile che la Fed continui a tenere una politica monetaria offensiva. Quanto alla crescita, stento a credere che un aumento così repentino dei tassi non produca conseguenze a livello di Pil. In altre parole: o l’economia sta rallentando o rallenterà a breve o ci saranno altre strette antinflazione che la faranno rallentare. Secondo molti esperti è addirittura possibile una recessione nella parte finale dell’anno. Ecco perché occorre prendersi una pausa di riflessione e capire quali saranno gli effetti combinati di tutti questi fattori.
Occorre incorporare le variabili macro nel modo di fare le previsioni, di valutare i rischi, di scegliere i titoli da mettere in portafoglio. Questo si traduce anzitutto in una maggiore attenzione alla qualità e quindi ai bilanci, sempre importanti in vista di una fase di stress come quella che ci apprestiamo a vivere. Non può mancare, poi, un focus sulle valutazioni. È vero, infatti, che l’equity americano si presenta nel complesso caro. Ma, per aree particolarmente prezzate, come il segmento growth o le large cap, ce ne sono altre che offrono ottime opportunità di investimento e stock picking: penso, ad esempio, ai titoli value meno ciclici.
Dopo 10 anni, il cash è tornato finalmente a essere un’asset class a tutti gli effetti. Ecco perché ritengo che detenerne una piccola quota in portafoglio sia utile a garantirsi una buona remunerazione e una discreta flessibilità nell’ottica di trarre vantaggio dalle future correzioni. E questo vale a maggior ragione se parliamo del dollaro, che oggi rende il 4,5-5%. Ma anche qui serve prudenza, che significa tenere sempre a mente le esigenze del risparmiatore in termini di orizzonte temporale e lo scopo del suo investimento.
Noi per primi abbiamo aumentato l’allocazione verso il value americano e cercato di ridurre l’esposizione ciclica del portafoglio. Lo abbiamo fatto sia a livello di singole società sia a livello settoriale. Più che nei comparti stabili tradizionali, come ad esempio le utilities, oggi le maggiori opportunità risiedono a nostro avviso nell’energetico, nel farmaceutico e nel mondo finanziario, specie alla luce della recente volatilità.
In questo campo è possibile fare tanta security selection. Se infatti nel 2008 c’erano molta più leva e molto meno capitale, i problemi di oggi non sono legati tanto alla qualità generalizzata dell’attivo quanto all’asset liability management inefficace da parte di alcuni specifici istituti: è stato esattamente questo fattore a innescare il panico dei risparmiatori Usa e, di conseguenza, la cosiddetta dinamica fly-to-quality che ha portato molti risparmiatori a spostare i propri depositi in banche più grandi e percepite come più resilienti. E ora proprio questi istituti diventano interessanti a livello di asset allocation, perché hanno ricevuto enormi quantità di denaro che potranno impiegare a tassi di interesse più elevati generando extra-profitti. In sintesi, sarà l’investitore razionale e lucido a potersi assicurare buoni ritorni.
L’international equity, dunque al di fuori del mercato Usa, rappresenta sicuramente una delle migliori opportunità di investimento disponibili, specialmente in termini di rapporto qualità-prezzo. In Corea e Giappone, ad esempio, molte società si trovano nelle condizioni migliori degli ultimi 20 anni ma conservano valutazioni basse anche in confronto al loro storico. Il mercato europeo, in modo simile, continua a scontare i timori di una recessione che sembra però essere stata scongiurata grazie a un inverno mite e al conseguente deprezzamento del gas. Non solo. Il Vecchio Continente è preferibile anche riportando lo sguardo al sistema bancario: se negli States alcuni settori, come l’immobiliare commerciale, che negli anni ha fatto affidamento sugli istituti medio piccoli, si vedranno infatti chiudere i rubinetti, lo stesso non accadrà sulla sponda opposta dell’Atlantico, dove il sistema è molto più capitalizzato.
Non si tratta di un fenomeno solamente europeo e non è neppure ascrivibile interamente, come molti sostengono, a un eccesso di costi e burocrazia. Lo interpreto piuttosto come una conseguenza del modello di sviluppo che ha contraddistinto l’economia dei Paesi avanzati negli ultimi 40 anni. Da un lato, i business model delle grandi aziende occidentali sono infatti diventati sempre meno capital intensive, riducendo la loro necessità di fare investimenti e quindi di reperire i capitali sulla pubblica piazza. Dall’altro, l’enorme sviluppo dei veicoli privati ha fornito opportunità di finanziamento fuori dal mercato e con meno controlli. Il tema è capire se la tendenza si protrarrà con la regionalizzazione dell’economia globale che si sta imponendo oggi.
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