Debito globale, allarme Fmi: al 93% del Pil quest’anno
Supererà i centomila miliardi di dollari. E nel 2030 arriverà al 100%. Necessario un aggiustamento del 3-4,5% del Pil ogni anno. “Ritardare richiederà un intervento più ampio”
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Niente panico ma occhi fissi su Israele. I mercati hanno reagito con relativa tranquillità all’annunciata risposta dell’Iran dopo il raid contro l’ambasciata del Paese a Damasco e sembrano ancora prestare fede alla versione di Teheran secondo cui la questione è chiusa. Eppure, l’attenzione dei mercati resta puntata sulla possibile reazione di Tel Aviv e sono tanti gli investitori che intravedono un aumento della volatilità: il raid è stato infatti il primo effettuato da un altro Paese contro lo Stato ebraico in 30 anni e i timori che possa portare a una guerra regionale, con ripercussioni sul traffico petrolifero, paiono concrete. Un’ipotesi smentita però dagli analisti, secondo i quali l’eventuale ritorsione di Benjamin Netanyahu si manterrà limitata proprio per evitare lo scontro aperto.
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“I timori di un conflitto regionale molto più ampio in Medio Oriente hanno influenzato solo in parte il clima di fiducia degli investitori”, spiega Filippo Diodovich, secondo cui un’eventuale risposta di Israele dovrebbe riguardare solo Hezbollah e non tradursi in un attacco diretto a Teheran. “Sui mercati abbiamo assistito solamente a qualche operazione di ‘flight to safety’ verso il dollaro ma non in direzione delle altre valute rifugio come franco svizzero e yen giapponese”, precisa il senior market strategist di IG Italia. Anzi, è la sua conclusione, “la moneta di Tokyo ha toccato un minimo trentennale rispetto al dollaro e ha mostrato che i tassi rimangono ancora l’obiettivo primario degli addetti ai lavori”.
Dello stesse parere si dimostra anche Vincent Chaigneau, head of Research di Generali Investments, che sottolinea come le crisi geopolitiche tendano a produrre un impatto perlopiù di breve durata sui mercati finanziari. “Il nostro scenario centrale prevede che l’attacco ‘senza precedenti’ ma ‘calibrato’ lanciato nei giorni scorsi non sia in grado di portare alla tanto temuta escalation”, spiega infatti l’esperto. Che però mette in guardia sulla natura incerta della reazione di Israele e su come lo stress regionale resti intenso
La volatilità rimane, n0n a caso, decisamente elevata. “L’indice rimane vicino ai massimi di cinque mesi e riflette un certo nervosismo del mercato”, osserva Diodovich. E questo nonostante gli Stati Uniti abbiano dichiarato di non voler prender parte a una controffensiva contro l’Iran. Per l’esperto di IG Italia, a spiegare il crollo del petrolio nella notte dell’attacco è il fatto che il rischio di ritorsioni iraniane fosse già stato scontato la scorsa settimana ma questo sta a significare che eventuali aumenti potrebbero d’ora in poi influire sulle pressioni inflazionistiche e complicare l’operato delle banche centrali. “L’aumento dei prezzi del barile è spesso associato a una maggiore volatilità dei titoli azionari, in particolare quando è guidato da tensioni geopolitiche o implica una maggiore incertezza”, aggiunge Chaigneau.
Hakan Kaya, gestore del fondo Neuberger Berman Commodities, punta l’attenzione proprio sul greggio e sulle prossime mosse di Israele nella consapevolezza che potrebbero portare a un’escalation di misure al momento non riflesse nei prezzi. “Lo Stretto di Hormuz, cruciale per i flussi globali di petrolio, simboleggia il delicato equilibrio di potere nella regione”, evidenzia. L’esperto ritiene improbabile una chiusura completa da parte dell’Iran (visto il controllo dell’Oman sulle rotte) ma segnala il rischio di azioni condotte da terzi sulle infrastrutture. “Le riserve strategiche degli Usa, anche se a livelli ridotti, e la presunta disponibilità di capacità di riserva dell’Opec potrebbero attenuare i picchi delle quotazioni”, afferma. Tuttavia, in caso di escalation, Kaya ritiene concreta l’ipotesi di un barile oltre il 100 dollari.
Non solo. Per il gestore, la concomitante escalation Iran-Israele e le sanzioni sui metalli russi segnalano un’evoluzione più ampia verso un regime dominato dal rischio geopolitico e che mette in discussione i paradigmi di investimento tradizionali. “Questo contesto sottolinea la necessità di una diversificazione sulle materie prime sensibili”. Un concetto che il gestore interpreta in questi termini: “Investire in commodity come petrolio, alluminio, nichel, rame e oro diventa essenziale non solo come strategia di copertura contro le pressioni inflazionistiche ma anche come salvaguardia dalle fragilità dell’offerta e i loro effetti sugli asset tradizionali quali azioni e obbligazioni”.
Quanto al mercato obbligazionario, secondo l’esperto di Generali Investments, l’impatto sui bond dipende dal fatto che lo shock sull’inflazione sta frenando la crescita e la spinta verso la qualità. “Tuttavia, il beta dei rendimenti dei Treasury a dieci anni rispetto ai tagli impliciti del 2024 è diminuito di recente. I breakeven dell’inflazione sono già aumentati e la fiducia in una ripresa ciclica globale è cresciuta. Di conseguenza, molte notizie ribassiste sulle obbligazioni sono nei prezzi”, precisa. Secondo Chaigneau, quindi i rendimenti dei titoli Usa a dieci anni (4,55%) stanno avvicinandosi a livelli di resistenza chiave che potrebbero costituire un’opportunità di acquisto.
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