Gli attacchi dei ribelli Houthi alle navi che attraversano il canale di Suez rischiano di ridurre ulteriormente i traffici lungo una rotta che vale il 12% del commercio globale. Per alcuni asset manager a risentirne sarà solo l’Eurozona. E solo in alcuni settori. Ma altri lanciano l’allarme: “L’inflazione può rialzare la testa”
Non c’è un attimo di respiro per gli investitori. Proprio quando i dati sull’inflazione avevano iniziato a far intravedere un ritorno alla normalità, le nubi della geopolitica hanno cominciato ad addensarsi sui mercati finanziari. Le ultime minacce da questo fronte sono legate al Mar Rosso, dove i ribelli yemeniti noti come Houthi hanno iniziato a colpire i mercantili in transito nel canale di Suez per spingere Israele a interrompere l’assedio di Gaza. Un ultimatum ritenuto credibile anche da Stati Uniti e Regno Unito, che negli ultimi giorni hanno colpito diverse postazioni del gruppo islamico nel tentativo di frenare l’emorragia di navi dalla rotta mediterranea. E proprio ora che il conflitto nella Striscia rischia di trasformarsi in guerra regionale, i gestori si dividono tra chi non vede ripercussioni a livello marco e chi invece teme una nuova fiammata dei prezzi. Soprattutto in Europa e nei Paesi emergenti.
Tutto è iniziato il 19 ottobre, giorno in cui la prima imbarcazione è stata colpita dalla milizia degli Houthi. Il gruppo di islamico localizzati nel Nord dello Yemen, da sempre ostile agli Stati Uniti, si è infatti schierata a fianco della Palestina fin dalla prime ore successive allo scoppio del conflitto tra Gaza e Israele. Una presa di posizione che, di recente, ha spinto Washington e Londra a realizzare diversi raid contro i ribelli nel tentativo di dissuaderli intensificare gli attacchi e preservare il commercio mondiale. A oggi il numero di navi che transita attraverso il Mar Rosso è infatti in drastica riduzione, con un volume pari al 66% dello standard da gennaio. Le compagnie navali stanno cioè dirottando i propri convogli verso l’Africa Occidentale, bypassando il Mediterraneo e doppiando il Capo di Buona Speranza, con un allungamento dei giorni di navigazione da sette a 20 e un milione di dollari di costi legati al carburante.
Effetti solo in Europa. E solo in alcuni settori
Annalisa Usardi, senior economist di Amundi Institute, si dimostra tra gli analisti più positivi. Intervenuta ai microfoni di FR|Vision, la piattaforma di broadcasting parte dell’offerta editoriale di FocusRisparmio, l’esperta ha sottolineato come eventuali impatti dell’escalation siano destinati a mantenere un’estensione circoscritta rispetto ad altri shock recenti. “A risentire maggiormente della crisi sarà il Vecchio Continente”, ha detto, spiegando che il canale di Suez ospita il 40% delle importazioni europee. Dal suo punto di vista, si tratterà comunque di un effetto contenuto in termini sia di entità che di settori coinvolti. “Le merci continueranno a circolare ed eventuali conseguenze dei ritardi nelle forniture saranno circoscritte solo ai comparti più esposti, come il tessile e l’automotive”. Quanto all’asset allocation, Usardi non sente la necessità di modificare la composizione tattica del portafoglio ma pensa che la strategia di lungo periodo dipenderà dalla dinamica della crescita economica: “Se la domanda resterà debole, le imprese non potranno scaricare a valle i rincari e vedranno contrarsi gli utili. In caso contrario, per i gestori si porrà la necessità di operare una nuova selezione nello spettro del reddito fisso”.
Una visione con cui concorda Flavio Carpenzano, investment director per il Reddito Fisso di Capital Group. L’esperto non esclude infatti la possibilità che la situazione abbia un impatto sull’inflazione headline dell’Eurozona ma nutre comunque dubbi sull’effettiva capacità di tradurre i costi più alti in aumenti dei prezzi finali. Anche per lui, dunque, la variabile chiave da monitorare resta l’evoluzione del Pil: “In caso di recessione o stagnazione, ipotesi che riteniamo la più probabile, la domanda si manterrà bassa e le imprese dovranno rassegnarsi a scontare i rincari sui margini”.
A intravedere rischi limitati è anche Giacomo Calef, country head Italy di NS Partners. Secondo lui, infatti, l’inflazione potrebbe non subire grossi scossoni al rialzo anche se rischio di un’escalation appare concreto. “I noli sono saliti significativamente ma restano ben lontani dai 14mila dollari osservati durante la pandemia”, ha spiegato. Senza dimenticare, ha aggiunto, che “i costi di trasporto contano solo per una piccolissima parte sul valore complessivo di alcuni beni influenti nel calcolo del Consumer Price Index”. La previsione della casa nello scenario peggiore è quindi di una risalita dei prezzi pari allo 0,7% per la fine 2024, con gli operatori costretti a rivedere le aspettative sui tagli dei tassi di interesse soprattutto da parte della Federal Reserve.
Ma attenzione all’offerta. E ai suoi impatti sull’inflazione
A ingrossare le fila dei pessimisti si è invece aggiunto James Carrick, global economist di LGIM. A differenza di quello che potrebbe venire spontaneo pensare”, l’esperto è convinto che “siamo di fronte a uno shock di offerta piuttosto che di prezzo”. Circostanza capace di generare reazioni a catena inaspettate, come dimostrano i suoi stessi calcoli. Stando infatti alle stime della casa di gestione, l’alternativa di circumnavigare l’Africa comporta un aumento del 30% nelle tempistiche di viaggio e una contrazione dell’offerta del 23%. In pratica, ha spiegato Carrick, “uno shock prolungato non solo ritarderà le spedizioni ormai programmate ma ridurrà anche la quantità di merci che possono essere spedite dall’Asia all’Europa in un dato periodo”. Ne consegue che la domanda è destinata a essere considerevolmente maggiore dell’offerta, a meno che anche la produzione o le vendite non vengano ridotte del 23% (assumendo che tutte le navi vengano dirottate). Da qui la necessità di monitorare l’evolversi della situazione e capire, in primis, quante navi passeranno dal Capo di Buona Speranza. Anche se, ha concluso l’esperto, “i più recenti dati di IMF Portwatch fanno temere che il traffico di imbarcazioni a Suez diminuisca del 33% e quello nei porti europei cali del 16%”.
Per gli analisti di S&P Global Rating, le tensioni crescenti aumenteranno sì il rischio di nuove pressioni al rialzo sull’inflazione ma soprattutto sui mercati emergenti. “Il canale di Suez resta una rotta fondamentale per il transito di materie prime energetiche, in particolare petrolio e gas naturale liquefatto, e questo aspetto si ripercuoterà soprattutto su Cina, Turchia e India”, fanno sapere dalla società americana. Uno scenario di cui sembra essere consapevole la stesso governo di Pechino, che è intervenuto prontamente per invitare alla calma dopo l’avvio dei bombardamenti inglesi e americani sulle postazioni Houthi in Yemen.
Prezzi e non solo: i rischi per l’Italia
L’Italia non sembra comunque immune dai rischi. Anche escludendo eventuali ritorni di fiamma dell’inflazione. Il pericolo maggiore che alcuni analisti intravedono per Roma risiede infatti nella possibilità di un cambio generalizzato delle rotte e quindi dell’esclusione del Mediterraneo dai traffici commerciali. Secondo il centro studi Srm, ad esempio, circa il 40% del commercio marittimo internazionale del nostro Paese si basa sulla rotta del Mar Rosso: una quota che vale circa 154 miliardi di euro. Di una cifra simile parla anche l’ente di ricerca tedesco Kiel Institute for the World Economy, che associa a Suez un import-export annuo di 148,1 miliardi di euro: l’11,9% del commercio estero totale e il 42,7% di quello via mare.
Non solo Suez: a Panama la siccità costa 700 milioni
La guerra , infine, non è l’unico problema all’orizzonte per i mercati. Anche il dossier ambientale sta infatti assumendo un peso importante. A Panama la siccità ha ridotto il volume delle acque e ha costretto le autorità a ridurre del 36% le traversate nel canale. Una circostanza dall’impatto economico considerevole. Tanto che Ricaurte Vásquez, amministratore della tratta commerciale, ha alzato le stime sul costo della siccità da 200 milioni a 500-700 milioni di dollari nel 2024.
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