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Slittato da ottobre a dicembre l’avvio del piano per far risalire la produzione. Colpa dei timori per l’economia di Cina e USA ma anche della de-escalation in Libia. Wti in rosso e Brent fermo ai 73 dollari toccati l’estate scorsa. Ecco la view degli esperti
Il petrolio non scende dell’ottovolante e archivia la penultima giornata di negoziazioni della settimana in preda alla stesse tensioni che in questi giorni lo hanno portato a toccare i minimi da oltre un anno. Sui listini internazionali Wti e Brent, benchmark di riferimento per il greggio negoziato rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa, hanno infatti chiuso contrastati dopo la notizia che l’Opec+ ha rimandato i piani di aumento della produzione di 180mila barili al giorno. Una decisione che, insieme agli effetti dei vari dossier geopolitici, rischia di complicare ulteriormente i piani di chi voglia investire nell’oro nero.
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Il dietrofront del cartello
Proprio nel tentativo di risollevare le quotazioni dopo giorni di calo, il cartello che riunisce Russia e maggiori Paesi produttori di petrolio ha stabilito che la graduale riduzione dei tagli produttivi slitterà di due mesi. Non più quindi ottobre, quando era previsto il ritorno sul mercato di una prima tranche da 180mila barili al giorno, ma dicembre. Salvo ulteriori ripensamenti, da non escludere dato che il gruppo ha fatto sapere di voler mantenere la “flessibilità per fermare o invertire l’aggiustamento a seconda delle necessità”. Una decisione, quella dell’Opec+, in realtà già ampiamente anticipata dalle agenzie di stampa e che dunque non ha avuto la forza mediatica di invertire la rotta negativa imboccata dalla materia prima. Dopo un balzo immediato di oltre il 2%, le quotazioni del Brent si sono infatti di nuovo afflosciate nel giro di un paio d’ore e sul finire della seduta di giovedì erano quasi invariate rispetto al giorno prima: intorno a 72,50 dollari al barile, vicino ai minimi da 14 mesi. Il Wti è addirittura sceso in territorio negativo, ripiegando sotto 69 dollari.
Opec+ schiacciata tra timori recessivi e domanda debole
A riportare la volatilità sui mercati delle materie prime è stato soprattutto il rinnovato pessimismo circa le sorti dell’economia di Pechino, mercato chiave per il greggio ma che non sta mandando alcun segnale di ripresa, e per il futuro degli USA, dove è tornato ad aleggiare lo spettro della recessione. Il piano dell’Opec+, che al netto dello slittamento di due mesi resta al momento identico, puntava proprio a ribaltare questo scenario riportando progressivamente sul mercato 2,2 milioni di barili giornalieri a partire dal ritiro dei tagli volontari di Arabia Saudita e altri sette Paesi. Ma la previsione di una netta ripresa della domanda, ipotesi di fondo su cui si basava la traiettoria disegnata dal cartello, pare totalmente smentita dai fatti: le scorte di oro nero sono infatti ai minimi almeno dal 2017 e promettono di calare ulteriormente.
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La view dei gestori
Cosa aspettarsi dunque nei prossimi giorni? È questa la domanda che si pongono ora gli investitori, i cui occhi sono puntati anche sulla traiettoria della domande e dell’offerta globale in una prospettiva di lungo periodo. Secondo Roberta Caselli, commodities investment strategist di Global X, i mercati petroliferi appaiono al momento adeguatamente riforniti e i recenti dati economici negativi avvalorano la tesi della debolezza della domanda. “Con i prezzi in netto calo a causa degli indicatori economici negativi di Cina e Stati Uniti”, spiega l’esperta, “non sorprende che l’OPEC+ abbia deciso di rinviare l’aumento della produzione”. Tuttavia, è la view di Caselli, difficilmente questi sforzi riusciranno a evitare un ulteriore perdita di quote di mercato per il gruppo. Non solo. “Se è vero che il calo delle scorte statunitensi potrebbe sostenere i prezzi del greggio”, conclude l’analista, “lo scemare dei rischi legati all’offerta dalla Libia potrebbe continuare invece a pesare su di essi”. Il riferimento è agli ultimi sviluppi sul fronte del Paese africano, che è stato per giorni sull’orlo della guerra civile a causa dei contrasti sulla nomina del governatore della banca centrale: mercoledì i due organi legislativi che si spartiscono il territorio, tra cui quello facente capo al generale Khalifa Haftar, hanno infatti concordato di far insediare un nuovo numero uno dell’istituto scelto congiuntamente entro 30 giorni.
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