Dopo il fuggi fuggi, gli investitori stanno tornando a puntare su Pechino. Ma molti gestori restano cauti: troppa incertezza. Meglio le opportunità offerte dagli altri Paesi dell’Area
Mentre Stati Uniti ed Europa fanno i conti con il bear market e i timori sempre più concreti di stagflazione, in Asia sembra respirarsi un’altra aria. Pare infatti che, dopo la fuga da una Cina in lockdown registrata nei mesi scorsi, molti investitori stiano tornando con decisione a puntare su azioni e obbligazioni di Pechino. Lunedì scorso, il market tracker Wind ha fatto sapere che nei precedenti dieci giorni consecutivi di trading il mercato cinese A-share aveva registrato afflussi netti di capitale straniero, il periodo più lungo di afflussi del 2022.
La settimana precedente, sempre secondo Wind, gli investitori stranieri avevano versato 36,83 miliardi di yuan (circa 5,48 miliardi di dollari) in alcune azioni cinesi attraverso la tratta nord del programma Stock Connect, facendo registrare il più grande aumento settimanale dall’inizio dell’anno.
Un dato in netto contrasto con il deflusso netto di 45,1 miliardi di yuan di marzo, in piena recrudescenza Covid, e confermato in un certo senso anche da Bloomberg secondo cui i fondi esteri hanno iniziato puntare sulla ripartenza del Paese.
Asia sì, Cina no
Non tutti i gestori, però, la vedono allo stesso modo. E sono parecchi quelli che preferiscono ancora la cautela. Per Jason Pidcock, head of strategy asian income di Jupiter Am, l’Asia rimane uno dei luoghi migliori in cui investire per ottenere income, anche se può essere fraintesa. “A volte si pensa in termini di mercati emergenti, ma l’area Asia-Pacifico ex Giappone comprende economie sviluppate come Singapore, Taiwan, Corea del Sud e Australia. Il payout ratio della regione nel complesso è a un livello sano, prova del fatto che i manager delle aziende sono felici di condividere gli utili con gli azionisti”, osserva.
Pidcock spiega che nella strategia di income azionario asiatico predilige le grandi società ben gestite, con bilanci solidi, un buon potere di determinazione dei prezzi e la capacità e la volontà di pagare dividendi sani. “Ciò contribuisce, a mio avviso, a ridurre il rischio – precisa -. Queste società hanno un solido track record, sono liquide e hanno ulteriore spazio per crescere. Ci aspettiamo che siano resilienti in un contesto di tassi d’interesse più elevati”.
Su Pechino però i dubbi restano. “Abbiamo sempre sottopesato la Cina e ora lo facciamo ancora di più – afferma -. L’economia cinese è al momento sottoposta a enormi pressioni a causa dei lockdown per prevenire la diffusione del Covid. Non c’è modo di sapere quando la ‘politica zero covid’ finirà”. Per questo l’esperto Jupiter preferisce mantenere un’esposizione indiretta a Pechino attraverso società e Paesi che prevede beneficeranno di una ripresa delle attività: Taiwan, Singapore, Corea del Sud e Australia.
“La strategia è sovrappesata sull’Australia, una delle poche economie che negli ultimi sei mesi ha registrato un aggiornamento positivo delle previsioni economiche per il 2022, nonostante l’ondata della variante Omicron e l’invasione russa dell’Ucraina. Ciò è legato alla gamma di hard e soft commodities, compresi i prodotti alimentari, che il Paese esporta e all’aumento dei prezzi del gas che ha migliorato i propri termini di scambio”, chiarisce Pidcock.
La lentezza di Pechino può costare cara
Polina Kurdyavko, head of emerging markets senior portfolio manager di BlueBay
Anche secondo Polina Kurdyavko, head of emerging markets senior portfolio manager di BlueBay, la pausa prolungata nell’elaborazione di una via d’uscita dalla politica zero-Covid rischia di avere un forte peso sull’economia e sulle prospettive di crescita. L’esperta punta l’attenzione soprattutto sulle difficoltà del settore immobiliare e sulle scarse contromisure prese da Pechino. Tra l’altro, a suo parere, è improbabile che si asisterà a grossi interventi o cambiamenti fino al 20° Congresso del Partito in agenda in autunno.
“Non bisogna sottovalutare il costo dell’attesa – avverte l’esperta -. Finché le persone non saranno libere di muoversi all’interno e all’esterno del Paese, qualsiasi stimolo sarà probabilmente meno efficace. Ne consegue che le proiezioni di crescita a lungo termine saranno probabilmente significativamente inferiori all’attuale consenso, così come l’interesse degli investitori per il Paese”.
“Sebbene l’attenzione alle ‘vite rispetto alla libertà’ sia comprensibile – prosegue -, durante una crisi la mancanza di una risposta politica può spesso creare ancora più squilibri e, in ultima analisi, innescare un aggiustamento molto più grande, dato che questo settore rappresenta un terzo del Pil cinese, il 35% delle entrate fiscali locali e il 28% dei prestiti delle banche in Cina. Senza contare che la ricchezza immobiliare rappresenta quasi l’80% di tutte le attività finanziarie cinesi (comprese le azioni e le obbligazioni), rendendo i consumi privati cinesi molto sensibili al calo dei prezzi delle case”.
Per la Kurdyavko, dunque, la mancanza di un’azione tempestiva da parte del governo può avere conseguenze a lungo termine. “Tuttavia, il danno potenzialmente maggiore non riguarda i livelli di recupero per gli obbligazionisti e il futuro interesse degli investitori per la Cina, ma le aree che sono le principali priorità del governo, come la stabilità sociale, l’occupazione e la prosperità”, conclude.
James Cook, Head of Investment Directors & Specialists, di Federated Hermes, analizza la regione concentrandosi non solo sulla Cina, ma anche su Paesi contrarian che hanno riacceso la curiosità degli investitori: come Thailandia e Filippine
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