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Nati come derivati incapsulati in una veste da replicante, questi fondi si sono infatti affermati rapidamente quale veicolo prediletto per chi non teme l’ebbrezza del leverage. E oggi dominano il mercato dei prodotti passivi, anche in Italia. Dai rischi alle opportunità, passando per i costi, un’analisi del segmento a partire dai dati Fida
*Financial Analyst di Fida
Il panorama degli strumenti finanziari passivi è in continua evoluzione. Spinti dalla necessità di approcciare un mercato nuovamente imprevedibile, gli asset manager si sono infatti impegnati nello sviluppo di soluzioni che possano interpretare al meglio la complessità dello scenario internazionale. Tra queste, tuttavia, poche incarnano con tanta evidenza il dualismo della finanza quanto gli ETF a leva. Nati come derivati incapsulati in una veste da replicante passivo, questi fondi si sono infatti affermati rapidamente quale veicolo prediletto per chi non teme l’ebbrezza del leverage. Un set di caratteristiche che, pur rendendoli tecnicamente raffinati e operativamente versatili, contribuisce anche a scoraggiarne l’adozione nel mondo della gestione attiva. Ecco perché FocusRisparmio, a partire dai dati di Finanza Dati Analisi, ha deciso di analizzare la categoria per fare un bilancio dei suoi punti di forza e debolezza.
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L’identikit del prodotto
I fondi comuni sono inadatti a gestire leve esplicite elevate. E non per mancanza di competenze, bensì per vincoli normativi e operativi che impongono limiti stringenti all’uso di derivati così come all’indebitamento diretto e alla replica sintetica. Anche gli strumenti flessibili, per quanto più disinvolti nell’allocazione e nei cambi di esposizione, si muovono su sentieri sicuri: il leverage raramente supera valori marginali e viene di solito attivato con finalità tattiche piuttosto che strutturali. Gli ETF a leva sono invece progettati per incorporare una leva costante sull’andamento di un sottostante, replicato mediante l’unione di swap con future e contratti a termine. Non inseguono l’alpha ma amplificano meccanicamente il beta, moltiplicandone virtù e nefandezze. Ciò li rende inadatti all’investimento tradizionale e perfetti per la speculazione tattica, l’hedging sofisticato o l’ingegneria da day trader. Il tutto con un’efficienza sorprendente su orizzonti brevi.
Tra matematica esatta e rischio esponenziale
Il funzionamento di un ETF a leva si fonda su un principio semplice quanto spietato: replicare un multiplo giornaliero della performance del sottostante. Un fondo 3x Long sul Nasdaq 100, ad esempio, tenderà a variare del +3% in una giornata in cui l’indice guadagna l’1% e del -3% se lo stesso benchmark perde l’1%. Tuttavia, questo rapporto si mantiene lineare solo su base intraday. Sul medio periodo, a causa della capitalizzazione giornaliera dei rendimenti, le performance deviano invece significativamente dall’intuizione lineare: una proprietà matematica che si manifesta con particolare virulenza in contesti di alta volatilità. È proprio qui che si annida il vero rischio di questi strumenti: il decay. In assenza di un trend direzionale netto, l’alternanza di rialzi e ribassi giornalieri può cioè erodere il capitale in modo irreversibile. Peggio ancora se si è dalla parte sbagliata del trade: un ETF 3x Short su un titolo tech in fase di rally può letteralmente evaporare nel giro di poche sedute, come testimoniano gli eclatanti drawdown registrati negli ultimi dodici mesi.
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Su Borsa Italiana: un arsenale ad alto coefficiente di rischio
L’analisi del centinaio di ETF azionari a leva quotati su Borsa Italiana restituisce una fotografia eloquente. Il predominio assoluto è detenuto dalle strategie a leva 3, in particolare long, che da sole rappresentano quasi la metà dell’intera offerta. Le controparti short, pur pari ad appena il 22% e quindi numericamente inferiori, mantengono una presenza significativa mentre le leve 2 e 5 costituiscono nicchie operative. Il dato più suggestivo riguarda però l’indicatore sintetico di rischio: il 94% degli strumenti sono classificati con il massimo livello, a conferma di una volatilità media annua superiore all’80% per le leve 3 e al 70% per quelle 5: questo significa che, nella pratica, siamo ben oltre la soglia in cui il concetto di rischio si dissocia da quello di semplice oscillazione. Ma è nei rendimenti, estremamente variabili, che questi strumenti mostrano tutta la loro doppia natura. I fondi passivi 3x su Palantir hanno registrato una performance annuale del +3770% in media, a fronte di un incremento del sottostante del 460%), e si sono così resi protagonisti di un exploit che non ha nulla da invidiare alle più spericolate call out-of-the-money. Le strategie Short su titoli come Moderna hanno invece toccato perdite prossime al 100%, segno che chi scommette contro la tecnologia con leva ha bisogno di nervi d’acciaio e di un tempismo da cardiochirurgo.

Fonte: FIDAworkstation
La razionalità dietro l’eccesso
Se si analizzano i rapporti di efficienza rischio-rendimento, emerge una realtà ancora più interessante. Nonostante l’estrema volatilità, alcuni ETF long a leva 3 mostrano Sharpe ratio superiori a due (su Palantir o Spotify, ad esempio), segnalando non solo performance assolute elevate ma anche una gestione del rischio sorprendentemente ordinata in contesti direzionali. Il Sortino ratio, più sensibile alla downside volatility, premia ancora di più queste strategie: con valori medi superiori a 2,5, si può dire che in mercati fortemente bullish la leva, paradossalmente, diventa efficient risk. Ma il quadro si capovolge per le strategie short, con le due metriche negative su quasi tutta la linea. Una dimostrazione che il leverage, in casi simili, non è altro che una lente d’ingrandimento puntata sull’errore.
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Quando la leva diventa moda di mercato
L’andamento delle emissioni di ETF a leva su Borsa Italiana rivela una traiettoria discontinua, ma definita. Dopo una fase embrionale tra il 2007 e il 2016, punteggiata da sporadiche emissioni pionieristiche, la vera accelerazione si è manifestata a partire dal 2020. Il biennio pandemico ha segnato una discontinuità strutturale: da allora questa strategia ha cioè smesso di essere un’eccezione di mercato per divenire una prassi operativa, con 19 nuovi strumenti nel 2022 e un picco di 28 nel 2023. Una tendenza che è rimasta vigorosa anche nel 2024, anno in cui il dato parziale conta 18 emissioni, e che testimonia due fenomeni convergenti: l’interesse crescente degli operatori retail verso strumenti iper-specializzati, spesso impiegati in logiche speculative di brevissimo termine, ma anche la tendenza degli emittenti a colonizzare ogni possibile micro-nicchia del rischio direzionale, sfruttando un contesto di mercati volatili e una fame insaziabile di beta amplificato. Se prima l’industria rincorreva la domanda, ora la anticipa e stimola.
Sottostanti e concentrazione: un dominio di tech ed Europa
L’evidente preponderanza di indici europei e titoli tecnologici USA come sottostanti negli ETF a leva quotati su Borsa Italiana non è affatto casuale: risponde a una logica di mercato che unisce fattori di accessibilità operativa, volatilità strutturale e narrativa finanziaria dominante. Gli indici europei, in particolare l’Euro Stoxx 50 e Ftse Mib, costituiscono un bacino d’elezione per strategie direzionali a leva per almeno tre motivi: sono benchmark ampiamente seguiti e replicabili con un livello di tracking relativamente efficiente anche in contesti iper-compressi come quelli della leva giornaliera, la loro composizione settoriale e geografica li rende altamente sensibili ai cicli macroeconomici e offre quindi terreno fertile per operazioni speculative su eventi attesi, permettono una strutturazione più agevole e minori frizioni operative. Sul fronte opposto, si collocano i titoli tech statunitensi: Tesla, Apple, NVIDIA, Amazon. Qui la leva trova il suo terreno naturale per un’altra ragione ancora più profonda: la volatilità connaturata alla narrazione. Questi titoli non sono semplicemente azioni, ma mitologie cariche di aspettative iperboliche. Proprio tale instabilità li rende perfetti per l’utilizzo di strumenti simili: dove la volatilità è costante, il leverage può agire da moltiplicatore sistematico di opportunità o catastrofi. In sintesi, azionario UE e Nasdaq rispondono a due pulsioni diverse ma convergenti: il bisogno di strumenti tattici su benchmark istituzionali e l’avidità speculativa per le montagne russe dei mercati.
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Emittenti: chi orchestra la danza della leva
Altra caratteristica che contraddistingue il mercato degli ETF a leva è la forte concentrazione. GraniteShares domina con il 35% dei prodotti, seguita da WisdomTree (25%) e Leverage Shares (20%). I primi due hanno un focus misto, su indici e azioni, mentre l’ultima si è specializzata in leverage su titoli singoli. Amundi e SG ETC completano il panorama con una manciata di soluzioni meno costose e più istituzionali nell’impostazione. La varietà dell’offerta, che spazia dalla leva 1x short su Euro Stoxx al 5x su singole azioni, consente ogni tipo di posizionamento tattico ma è evidente che non tutti questi prodotti nascano per durare: molti sono concepiti come strumenti da trading puro, utilizzabili con tempismo chirurgico e logica binaria.

Fonte: FIDAworkstation
Il peso della leva
Nel panorama policromo degli ETF a leva, il capitolo relativo ai costi rivela un sottobosco in cui si intrecciano oneri espliciti e impliciti in grado di erodere significativamente la performance attesa. L’analisi comparata dei dati evidenzia due principali filoni di offerta: i prodotti UCITS tradizionali, come quelli targati Amundi o Xtrackers, dal profilo commissionale contenuto e con costi correnti attorno allo 0,6% o anche inferiori; gli ETP strutturati da emittenti come GraniteShares e WisdomTree, in cui gli oneri correnti sfiorano il 4,5%. Se le commissioni di gestione appaiono generalmente allineate, con una polarizzazione fra i 0,75% e i 0,99% nei prodotti più esposti, ciò che realmente distingue questi strumenti è la presenza di costi correnti consistenti, spesso dovuti a oneri di finanziamento e di replica sintetica, denotando una politica di pricing coerente ma onerosa per l’investitore retail. Da non trascurare neppure i costi di transazione, con valori che superano anche l’1% annuo.
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Opportunità e criticità degli ETF speculativi
Gli ETF a leva rappresentano strumenti di precisione estrema. Il loro impiego può generare rendimenti straordinari in contesti direzionali ben definiti, siano essi di slancio rialzista o di repentine correzioni ribassiste, ma richiede una comprensione profonda della meccanica sottostante, una costante attività di monitoraggio e una disciplina ferrea nella gestione tattica. Non sono strumenti da cassettista né da esploratore distratto del mercato, piuttosto da professionista che sa calibrare esposizione e controllo del rischio. Il loro potenziale si esprime dunque appieno in mani esperte, specialmente in fasi di forte momentum o quando la volatilità si muove in maniera prevedibile. Tuttavia, l’effetto compounding nel tempo e il differenziale tra rendimento del sottostante e performance realizzata ne limitano fortemente l’utilizzo in ottica buy-and-hold. La criticità maggiore risiede infatti nella divergenza strutturale tra ciò che l’ETF dovrebbe replicare su base giornaliera e ciò che effettivamente consegna nel medio termine, rendendolo inadatto per strategie passive o orizzonti temporali lunghi. In questo contesto, il supporto di piattaforme professionali evolute si rivela imprescindibile. Tool di analisi avanzata come i backtest giornalieri, l’analisi della volatilità e la proiezione delle performance cumulate consentono di anticipare l’effetto leva nel tempo e valutare l’idoneità di uno strumento rispetto al profilo di rischio del cliente. Anche la possibilità di aggregare e confrontare ETF affini per leva, benchmark e replica si rivela cruciale per chi intenda usare questi strumenti con la dovuta perizia. In altre parole, se l’ETF a leva è un bisturi, la piattaforma deve essere la sala operatoria perfettamente attrezzata.

Fonte: FIDAworkstation
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