Obbligazionario Usa, la stagflazione fa paura
L’analisi di FIDA per FocusRisparmio si concentra su 186 classi di fondi aperti distribuiti in Italia e 69 etf quotati su Borsa che investono nelle obbligazioni statunitensi
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La cerimonia d’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha senza dubbio catalizzato l’attenzione dei media di tutto il mondo nella settimana appena conclusa.
Politici, analisti, investitori e semplici osservatori hanno rivolto il proprio interesse verso Washington per cercare di capire in che modo il neoeletto presidente intende avviare il proprio mandato.
Quali sfide dovrà affrontare Biden? Quale sarà il suo atteggiamento verso i dossier che eredita dal suo predecessore e quale sarà la posizione nei confronti dell’Europa?
Paolo Guerrieri, economista e docente universitario, autore del libro “L’economia europea – Tra crisi e rilancio” scritto a quattro mani con l’ex ministro Pier Carlo Padoan, risponde alle nostre domande facendo luce sul rapporto secolare che lega il vecchio e il nuovo continente.
Veniamo da quattro anni in cui abbiamo assistito a due fenomeni strutturali nel contesto globale: il primo è l’inasprimento del contrasto fra Stati Uniti e Cina, il secondo è l’indebolimento ulteriore delle istituzioni internazionali che in passato avevano un ruolo rilevante nel gestire crisi e questioni di carattere globale. Da questa situazione che viviamo tutt’oggi potranno derivare diversi scenari per l’economia mondiale, che l’Europa dovrà fronteggiare con diplomazia ed equilibrio ma senza chiamarsene fuori, anche perché l’aspro confronto Usa-Cina non verrà certamente meno con il nuovo presidente Joe Biden. Per realizzare quelli che sono obiettivi interni, vale a dire crescita sostenibile, prosperità e coesione, l’Europa deve partecipare attivamente a questa sfida nel mondo. Il rischio altrimenti è che il continente diventi solo un campo da gioco dove le altre potenze globali verranno a misurarsi. Un esempio? Le politiche ambientali: l’Europa contribuisce al 10% circa delle emissioni mondiali di carbonio, perciò, anche se riuscisse a centrare gli obiettivi interni che si pone di una decarbonizzazione al 2050 si tratterebbe solo di una goccia in meno in un oceano. È la conferma che l’Europa dovrà occuparsi di ciò che avviene anche al di fuori dei propri confini, non farlo sarebbe miope.
Trump nello scontro con la Cina ha denunciato problemi che per la gran parte coincidevano con i nostri. Il più importante di tutti è la mancanza di reciprocità nei rapporti fra Cina, da un lato, Usa – Europa dall’altro. Le intenzioni dell’ex presidente Usa erano quindi giuste: ristabilire condizioni di reciprocità eliminando i vantaggi unilaterali di cui la Cina si appropria non rispettando le regole della concorrenza e del mercato. Tuttavia, Trump ha condotto una crociata unilaterale e l’Europa ha fatto bene a non farsi coinvolgere perché oltre il confronto bilaterale, dove anche l’Europa vuole un confronto duro, ci sono interessi e temi a livello globale dove si può collaborare con la Cina. Esistono dei beni pubblici globali – come ad esempio la salvaguardia dell’ambiente, la diffusione dei vaccini, ed altro – sui quali si può guardare a Pechino come un possibile partner ed attuare una strategia di coinvolgimento. Le ostilità su tutti i fronti possono essere controproducenti. Credo che con Biden alla Casa Bianca lo scontro fra Washington e Pechino continuerà pur se con toni meno aspri.
Lì dove ci sono interessi convergenti è giusto combattere le stesse battaglie. La sfida che Xi Jinping ha lanciato all’America riguarda la leadership globale; questo però non è solo un problema degli Stati Uniti, noi non possiamo astenerci dal prendere una posizione. Anche perché la Cina vuole dividere il fronte transatlantico. Noi dobbiamo essere comunque bravi negoziatori e mantenere una posizione relativamente autonoma: da un lato avere la capacità di riallacciare il rapporto con gli Usa e mantenere un fronte comune in grado di imporsi sulle grandi questioni globali, ma allo stesso tempo mantenere un certo grado di autonomia che ci possa permettere, ad esempio, di mantenere rapporti con Pechino su alcuni temi prima ricordati. Ne va della nostra (come europei) rilevanza strategica internazionale da un lato e della nostra autonomia dall’altro.
Ci sono due interpretazioni al riguardo. Una sostiene che l’Europa abbia fatto bene a firmare questo accordo perché la Cina avrebbe fatto delle concessioni straordinarie, mai fatte prima. Ma va aggiunto che il testo dell’accordo non è ancora circolato ed è dunque difficile al momento in cui parliamo confermare queste tesi. Un’altra interpretazione vorrebbe invece che gli impegni presi da Pechino siano molto meno importanti e su alcuni temi quali il rispetto di standard ambientali o dei diritti umani siano piuttosto vaghi e senza riferimenti temporali precisi. Inoltre, la Cina non avrebbe voluto l’istituzione di un tribunale indipendente che vigili sul rispetto delle condizioni stabilite all’interno di accordi come questo. Io temo che questa seconda interpretazione sia più aderente alla realtà di ciò che è avvenuto. Mi domando poi se la scelta del timing per la firma dell’accordo non sia stata avventata. Veniamo da un periodo in cui la Cina è stata criticata per molte sue iniziative a livello internazionale a cominciare dalla aperta violazione degli accordi su Hong Kong. Forse si sarebbe potuto attendere l’insediamento dell’amministrazione Biden per cercare di negoziare con la Cina un accordo più ampio che includesse magari oltre gli Usa anche il Giappone. Mi auguro comunque di essere smentito in questa mia interpretazione e che il Cai contenga delle condizioni talmente innovative da rappresentare un vero passo avanti nei rapporti con la Cina. Lo sapremo quando finalmente potremo leggere il testo dell’accordo.
È stata un’iniziativa presa nel 2019 dall’allora maggioranza Giallo-Verde (Lega-M5Stelle) e non è stata certo un’iniziativa felice. Figlia più che altro della confusione che caratterizzava il primo governo Conte allora in tema di politica estera. Quel governo guardava con favore un po’ alla Russia, un po’ alla Cina e al contempo strizzava l’occhio a Trump. La firma di quel trattato servì molto a Pechino che in quel modo ha potuto dimostrare che anche un Paese del G7, fondatore dell’Unione europea, avallava convinto i progetti espansionistici della Cina. Peraltro, nessuno sa che fine poi abbia fatto quell’accordo, che si componeva più di annunci che di effettive iniziative a favore delle imprese italiane. Con la caduta di quel governo e l’insediamento del nuovo la posizione dell’Italia è rientrata all’interno del quadro europeo e transatlantico e si è fatta più chiara. Dobbiamo continuare su questa strada, il nostro posto è all’interno dell’Europa perché è l’unica collocazione che ci può consentire di contare a livello globale e sostenere un confronto con le altre grandi potenze. Pensare di poter andare da soli e ottenere vantaggi è una pura velleità e un grosso errore.
Quello dell’instabilità politica è un problema cronico dell’Italia e oggi è ancora più acuto che in passato. Nella prima e per molti versi anche nella seconda repubblica l’instabilità dei governi non rimetteva in discussione la natura dei nostri rapporti di politica estera e la posizione internazionale dell’Italia era relativamente salda. Oggi i cambi di governo possono significare radicali modifiche anche nei rapporti dell’Italia con l’esterno e questo crea incertezza in chi ci guarda da fuori. Oggi esistono forze e partiti antisistema praticamente in ogni paese dell’area avanzata ma quello che fa dell’Italia un caso peculiare è che nel marzo 2018 queste forze hanno ottenuto la maggioranza dei voti. Con il governo Lega-M5S il confronto-scontro dialettico con Bruxelles ha toccato livelli di guardia mai visti prima. Poi il cambio di maggioranza ha significato un netto riposizionamento dell’Italia verso una sua collocazione più tradizionale. Ma in prospettiva – se si pensa a nuove elezioni – purtroppo ancora instabile. Anche all’interno della attuale maggioranza di governo permangono posizioni ambigue come quella legata all’utilizzo dei fondi del Mes. Siamo un paese importante per l’Europa ma al contempo una fonte di instabilità e preoccupazione. Non mi stanco di ripetere che il miglior modo di servire l’interesse nazionale dell’Italia è in Europa e attraverso l’Europa. Oggi un leader politico saggio è colui che trasmette questi valori. Il Recovery Plan, ad esempio, è un’opportunità enorme che ci viene data dall’Europa, dobbiamo usarla bene. Si potrebbe così riconquistare il consenso di milioni di italiani in favore dell’appartenenza all’Unione europea e al processo di integrazione.
La fase di elaborazione è in grave ritardo. Fra un mese circa dovremmo presentare i progetti perché poi si aprirà la fase del loro esame da parte della Commissione. Ma da quello che si è visto siamo ancora in una fase di prima elaborazione del progetto. La cosa da capire è che questi non sono soldi da spendere in mille direzioni ma da investire in pochi grandi progetti, e gli investimenti non possono prescindere dalle riforme. Questo è necessario fare e questo vuole l’Europa. Indicare quali riforme, specificare che tipo di investimenti verranno fatti, istituire una struttura di governance e individuare quali obiettivi e poi soprattutto quali saranno i criteri di misurazione dei risultati. L’occasione è davvero grandiosa, unica e in qualche modo storica. Per ora non siamo partiti bene ma c’è ancora tempo per rimediare. Ci si può augurare che da domani tutti si mettano al lavoro!
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