Debito globale, allarme FMI: al 93% del PIL quest’anno
Supererà i centomila miliardi di dollari. E nel 2030 arriverà al 100%. Necessario un aggiustamento del 3-4,5% del PIL ogni anno. “Ritardare richiederà un intervento più ampio”
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Nel febbraio del 2000, mille dollari avevano lo stesso potere d’acquisto di 1.523 dollari del 2020. Ne deriva che in vent’anni le famiglie statunitensi hanno subito una svalutazione del 2,6% annuo circa, percentuale abbastanza contenuta da rientrare in quello che nel gergo da banchiere centrale si definisce ‘stabilità dei prezzi’. Nel febbraio del 2021, invece, con mille dollari un americano poteva comprare la stessa quantità di beni per i quali nel 2023 ne deve sborsare 1.143. Una perdita del potere d’acquisto in 24 mesi del 7,2% annuo. Ben oltre qualsiasi stabilità dei prezzi.
Qualcosa evidentemente non ha funzionato se, come fa notare Alessandro Tentori, cio di Axa Im Italia, sul sito del Consiglio dei Governatori della Federal Reserve si legge che ‘una funzione cruciale della valuta è la riserva del valore che può essere risparmiato e usato in futuro senza una perdita significativa di potere d’acquisto’.
Per l’esperto siamo infatti di fronte a un ‘deleveraging’ del sistema economico, dove la popolazione si impoverisce mentre si stabilizzano le metriche di rischio del debito, sia pubblico sia privato. “Sento spesso parlare di ‘effetto virtuoso’ dell’inflazione sulla sostenibilità del debito. In effetti il quoziente debito/Pil si comprime in un regime di crescita nominale più alta del tasso di interesse sul debito (la famosa formula i-g). La crescita nominale è la somma di crescita reale e inflazione, quindi anche con crescita reale a zero, l’alta inflazione può aiutare a diminuire il livello di debito sul Pil. Se però scende il rapporto debito/Pil, scende con l’inflazione anche il potere d’acquisto delle famiglie”, sottolinea.
E se la perdita del potere d’acquisto non viene compensata dall’aumento dei salari, come avverte Tentori, il problema può assumere un carattere sociale. Non solo: “L’impatto sociale dell’inflazione si ha anche quando l’aumento dei prezzi dei beni primari, in particolare quelli alimentari, riduce sproporzionatamente il reddito disponibile degli strati più deboli della società. Storicamente, il connubio tra fragilità del potere d’acquisto e rapido aumento della disuguaglianza non ha mai portato a stabilità economica, politica e sociale”, fa notare.
“Sta quindi alle autorità preposte al controllo della stabilità dei prezzi, le banche centrali, ritrovare quell’equilibrio che sembra essersi perso nelle riaperture post-Covid, nei colli di bottiglia delle supply chain, nel re-shoring, nei rapidi cambiamenti demografici e nelle nuove abitudini lavorative”, conclude quindi Tentori.
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