Secondo una ricerca di Aifi e Dla Piper, la spinta propulsiva dei dirigenti è cruciale per il buon risultato dell’operazione. E ha anche un effetto positivo per lo sviluppo dell’azienda. Ecco come il private equity valorizza e fa crescere il management
Con 11 miliardi di euro, 185 operazioni nel solo 2022 e un tasso di crescita del 103%, il buy out è un segmento sempre più centrale nel private equity italiano. Pesa infatti per il 46% dell’ammontare investito e, negli ultimi dieci anni, ha raccolto ben 48 miliardi di euro. Merito anche del contributo di player internazionali che continuano a manifestare grande interesse per il mercato italiano. È quanto rivela un’indagine di Aifi e Dla Piper, secondo la quale il successo di queste operazioni dipende dalla presenza di un team manageriale coeso e ‘committed’.
La spinta propulsiva dei manager, infatti, non solo è cruciale per il buon risultato dell’operazione ma svolge anche un effetto positivo generale per lo sviluppo dell’azienda oggetto di buy out. Inoltre, incentivare e responsabilizzare il team di comando aiuta a individuare modelli di leadership da affiancare a quelli tradizionalmente basati sulla figura degli imprenditori. E infine, genera un forte impulso alla crescita e affermazione professionale.
La ricerca ha analizzato un campione di 40 operatori del private equity, di cui 24 domestici e 16 internazionali per un totale nel periodo 2013-2022 di 349 operazioni (il 32% degli investimenti di buy out nel mercato italiano) e 13 miliardi di capitale investito (il 28% dell’ammontare totale). “Lo studio mette in evidenza il ruolo fondamentale del settore nella crescita e nella valorizzazione del management”, sottolinea la direttrice generale Aifi Anna Gervasoni. Che aggiunge:“Il 40% degli operatori ha inserito almeno tre nuovi manager e l’81% ha utilizzato incentivi almeno in tre operazioni su quattro”. Secondo l’esperta, ne deriva che il contributo dei fondi sul capitale umano permette una crescita delle competenze fondamentale per consolidare l’impresa e consentirle di affrontare le sfide dei mercati. “L’incentivazione del management team costituisce un elemento chiave per il successo delle operazioni di buy out”, aggiunge Alessandro Piermanni di Dla Piper. Dal suo punto di vista, queste forme di premialità volte all’allineamento degli obiettivi tra investitori e gestori contribuiscono alla creazione e sviluppo di una categoria professionale determinante per la crescita e la competitività delle imprese”.
Il ruolo dei manager e gli incentivi
Stando ai dati, nelle iniziative di buy out una parte consistente degli operatori punta alla valorizzazione del team manageriale interno alle aziende target. Nel caso in cui vengano coinvolti profili esterni, questi sono generalmente destinati all’area finanziaria e di direzione. La figura dell’imprenditore rimane comunque centrale, in quanto oltre l’80% degli intervistati ha realizzato almeno un deal con il coinvolgimento di questi nel ruolo di manager. Forme d’incentivazione sono presenti nella stragrande maggioranza dei casi, perché permettono l’allineamento degli interessi tra il fondo investitore e la dirigenza: l’81% degli operatori dichiara infatti di aver inserito forme di premialità in almeno tre operazioni su quattro.
Particolarmente rilevante è la questione fiscale. Gli incentivi ai manager passano infatti soprattutto attraverso strumenti di ‘sweet equity’, cioè strumenti finanziari che permettono di ottenere ritorni più che proporzionali rispetto a quanto investito. Tali rendimenti rientrano però nel regime fiscale dei redditi da lavoro, più oneroso di quello dei redditi di natura finanziaria. Da questo punto di vista l’analisi di mercato dimostra che la modifica normativa in materia di ‘carried interest’ ha introdotto un elemento di grande utilità per gli operatori, tanto che per il 66% del campione lo ‘sweet equity’ è diventato prevalente rispetto ai bonus: viene infatti inserito dal 40% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti. Indicativo dell’utilità di un sistema d’incentivi è il fatto che questi strumenti comincino ad essere offerti non solo a ceo e prime linee, ma anche al ‘middle management’.
Stock option al tramonto
L’indagine dimostra, poi, che al momento il mercato non ha ancora elaborato in modo consistente indicatori di performance manageriale diversi da quelli finanziari, per esempio incentrati sulle tematiche Esg. Restano infatti preponderanti i fattori del ritorno cash-on-cash (cioè il multiplo realizzato rispetto a quanto investito) e dell’Irr (cioè il tasso di rendimento del capitale investito). Per quanto riguarda le forme di assegnazione, preferiti restano gli strumenti azionari o finanziari e il cosiddetto exit ratchet, cioè il pagamento in denaro ai manager di parte dei proventi derivanti dal disinvestimento effettuato dall’investitore. In calo, invece, soprattutto a seguito della introduzione della normativa sul carried interest, le stock option.
Molto diffuso anche lo strumento del management by objectives (Mbo), che consiste nell’assegnazione di obiettivi individuali ai manager il cui raggiungimento è premiato tramite pagamento di bonus. Viene inserito infatti dal 65% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti, coinvolgendo amministratore delegato e prima linea nel 67% dei casi. Nel 28% delle occasioni, invece, si arriva a comprendere anche il middle management. Tra gli obiettivi specifici spiccano quelli relativi all’area di attività del dirigente o anche quelli complessivi, come Ebitda e Posizione finanziaria netta.
Piace anche lo strumento del co-investimento/re-investimento, che prevede appunto il reinvestimento da parte dei soci o manager in società del gruppo investitore o nell’azienda target con finalità di allineamento d’interessi. Questa modalità operativa viene inserita dal 55% degli operatori in oltre il 75% dei casi, coinvolgendo principalmente il top management. In questo caso, i reinvestimenti possono arrivare fino al 10-30% del valore del deal.
L’influenza di un “good leaver” e di un “bad leaver”
Lo studio ha infine considerato gli eventi interruttivi del rapporto di collaborazione con il management. Nella quasi totalità dei casi si prevedono condizioni di ‘good leaver’ o ‘bad leaver’, dove il primo comprende morte/invalidità e dimissioni per giusta causa o revoca senza giusta causa. Il secondo, invece, riguarda la revoca per giuste ragioni e le dimissioni senza motivazione.Le cause di leavership precludono di regola la prosecuzione del rapporto sociale determinando pattuizioni di acquisto-riscatto delle partecipazioni o degli strumenti emessi e incidono sulle condizioni economiche di riacquisto. In caso di ‘good leaver’, questo avviene nel 92% delle situazioni al fair market value e quindi con modalità non penalizzanti. Nell’ipotesi di ‘bad leaver’, il riacquisto avviene invece a un valore inferiore per il 92% delle volte.
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