Universo d’investimento globale, ampia scelta nell’attivo e nel passivo, possibilità di selezionare i titoli in base ai settori o alle aree geografiche. Per l’head of Multi-Asset Strategies di Amundi, sono i fattori che rendono questo approccio ideale a cavalcare la complessità del presente. Ecco come metterli in pratica
Ucraina, Taiwan e ora anche Palestina. Mai quanto negli ultimi anni la geopolitica ha rivestito un ruolo così importante nell’orientare o condizionare le scelte dei risparmiatori. Eppure, molte case di gestione ancora faticano a capire come integrare questa variabile nelle loro strategie. Francesco Sandrini, head of Multi-Asset Strategies di Amundi, ritiene che un approccio multi-asset possa rappresentare la risposta ideale per venire in contro alle esigenze degli investitori in un mondo sempre più dominato da incertezza e complessità.
Perché ha questa convinzione?
I numeri parlano chiaro. Una soluzione multi-asset bilanciata generica con un portafoglio 50-50 ha toccato a marzo 2024 i massimi storici dal 2021, recuperando completamente o quasi le perdite registrate in conseguenza al repentino aumento dei tassi di interesse. Universo di investimento globale, ampia scelta sia nell’attivo che nel passivo, possibilità di selezionare attivamente i titoli in base ai settori industriali ma anche ai fondamentali sono i segreti alla base di questo risultato. Senza dimenticare l’opportunità di cambiare area geografica di riferimento, privilegiando i Paesi che possono beneficiare maggiormente di questo o quell’altro risvolto. In altre parole, i fondi multi-asset consentono di modulare velocemente e in modo professionale la propria esposizione ai fattori di rischio in un contesto che vede questi stessi fattori aumentare sempre di più.
Quali soluzioni e quale asset allocation privilegiare?
Non esiste un’asset allocation ideale, perché tutto dipende dal profilo di rischio del soggetto. La maggior parte dei risparmiatori attuali, ad esempio, sembra preferire soluzioni con una componente azionaria del 10%-30% anche se il mercato ha dimostrato di premiare chi preferiva il capitale di rischio a obbligazioni o liquidità. L’unica caratteristica imprescindibile che mi sento di indicare per una strategia multi-asset capace di trarre vantaggio dalla geopolitica è un universo di investimento globale. E il motivo è sempre lo stesso: la possibilità di spostarsi da un mercato all’altro in base a cosa si cerca. L’equity di Pechino, ad esempio, sta vivendo un momento di difficoltà ma questo stesso aspetto lo rende appetibile per chi sia attirato da valutazioni a sconto. Il Giappone ha invece sovraperformato in scia alla politica monetaria ultra accomodante della banca centrale e ora, insieme all’India, promette di imporsi come potenza industriale proprio al posto di una Cina minacciata da nuove sanzioni americane. Altre occasioni risiedono in Messico, che ha beneficiato dell’accorciamento della catene produttive, o in Indonesia, che esporta grandi quantità di nichel e quindi offre esposizione al rally di metalli pesanti, oppure anche in Corea, in prima fila rispetto ai principali megatrend tecnologici. Uscendo invece dalle asset class tradizionali, siamo convinti che un quota di oro vada detenuta in quanto crediamo che le riserve delle banche centrali aumenteranno ancora e il lingotto beneficerà della sua natura di bene rifugio mentre più difficile è capire quale sarà la dinamica del petrolio.
Ha fatto riferimento ad alcun settori. Quali aree merceologiche cavalcare?
Se escludiamo la difesa, su cui si stanno concentrando molti capitali ma che non è investibile direttamente a causa dei vincoli di sostenibilità, quattro settori costituiscono l’epicentro del futuro equilibrio geostrategico: la robotica e l’intelligenza artificiale, dalle quali dipende la lotta per la supremazia tra Stati Uniti e Cina; i semiconduttori, interessati più di tutti dal fenomeno dal decoupling tra superpotenze occidentali e orientali; il biotech, che subirà un’accelerazione in scia all’invecchiamento della popolazione; le tecnologie legate alla generazione di energia da fonte rinnovabile, alle quali si stanno già rivolgendo ingenti investimenti pubblici soprattutto in Europa.
Come tenerne conto nelle strategie di investimento?
La geopolitica si riflette nelle scelte di portafoglio degli investitori anzitutto come fonte di ulteriore incertezza e quindi fattore che determina una maggiore avversione al rischio. A differenza di ciò a cui eravamo abituati in passato, il panorama internazionale odierno si regge infatti su un equilibrio multipolare in cui anche soggetti all’apparenza marginali possono far pendere l’ago della bilancia da un parte o dall’altra. Lo abbiamo visto in occasione dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina o, in tempi più recenti, con le iniziative dell’Iran e dei ribelli Houthi nell’ambito delle tensioni scatenate in Medioriente dall’attacco di Hamas contro Israele. C’è poi un altro canale di comunicazione tra geopolitica e mercati, sebbene indiretto: lo scenario macroeconomico. I conflitti in una determinata area del mondo possono infatti incidere sulla crescita e sulla produttività dei Paesi coinvolti, influenzando le politiche dei loro governi o perfino di istituzioni monetarie come le banche centrali. Un errore che spesso si commette è però quello di pensare che i mercati reagiscano subito agli eventi geopolitici, quando è vero il contrario: si muovono molto di più a distanza di mesi, nel momento in cui risulti chiaro in quale direzione si è modificato l’equilibrio di partenza e come adeguare l’asset allocation per trarne beneficio. Questo impone di approcciare la materia con pazienza e nella consapevolezza che a ogni rischio è legata un’opportunità.
Fra i dossier che più tengono banco, c’è il conflitto in Medioriente. Come interpreta le ultime novità, cioè la posizione espressa dalla Corte de L’Aja su Netanyahu e la morte del presidente Iraniano Raisi?
Nonostante la morte di Raisi apra la strada a nuove elezioni, è difficile prospettare scenari diversi da quello di un nuovo partito ultraconservatore. E anche se le autorità avrebbero interesse a distogliere l’attenzione da problemi come l’inflazione o la bassa crescita, la strategia dovrebbe rimanere la stessa anche rispetto alle tensioni nella regione: non assumere un ruolo attivo ma aspettare il momento giusto per trarre vantaggio. Quanto all’Aja, due circostanze le impediranno di produrre un impatto internazionale davvero rilevante: c’è una frammentazione piuttosto marcata nelle posizioni dei Paesi occidentali e conta molto di più il ruolo di attori come l’Arabia Saudita o gli altri Paesi del Golfo.
Con le Europee in vista, la stagione delle elezioni si prepara a entrare nel vivo. Come le urne del Vecchio Continente e quelle americane potrebbero influenzare i fronti geopolitici?
L’impatto delle elezioni sarà meno rilevante di quanto si pensi per i dossier geopolitici. Le sanzioni americane contro Cina e Iran, ad esempio, sono state largamente utilizzate anche sotto l’amministrazione Biden e quindi dovrebbero raccogliere un consenso bipartisan a prescindere da chi sarà il nuovo presidente. Qualsiasi partito governi l’Europa dovrà invece portare avanti i grandi progetti già avviati nelle legislature precedenti e fare i conti con la debolezza strutturale del blocco su alcuni dossier strategici, come il rischio di legarsi alle catene di fornitura cinesi per realizzare la transizione sostenibile. L’unica novità potrebbe consistere piuttosto nell’assunzione di atteggiamenti protezionisti da parte Washington proprio verso il Vecchio Continente.
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