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Nonostante valga 1.200 miliardi di euro, l’industria fatica ad attirare l’interesse degli investitori. Colpa della concorrenza cinese e delle difficoltà nel passare all’elettrico. Ma per Thomas Candolo (Copernico SIM), la soluzione non sono le tariffe. Dalle batterie ai nuovi materiali, quali ricette per riaccendere il comparto?
Un settore che vale quasi 1.200 miliardi di euro, cioè il 7% del PIL europeo, ma che si trova a vivere la fase più critica della sua storia recente. Anche dal punto di vista dell’interesse suscitato presso i mercati finanziari, con gli investitori sempre più dubbiosi sulla sua tenuta e restii ad allocarvi il loro capitale. È la fotografia dell’automotive europeo, stritolato tra la dura concorrenza cinese e molteplici difficoltà nel trovare la quadra sulla transizione all’elettrico. È quanto sostiene Thomas Candolo, analista dell’ufficio studi di Copernico SIM, secondo cui una sola può essere la chiave di volta per fare uscire il settore dal guado: attuare una profonda opera di reindustrializzazione anziché limitarsi a politiche commerciali protezionistiche.
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Una crisi profonda
La misura delle difficoltà in cui si trova l’auto del Vecchio Continente è data dagli ultimi report dell’Associazione costruttori europei (Acea), entità che rappresenta le maggiori case produttrici dalla spagna ai confini più orientali dell’Unione: le immatricolazioni di agosto sono infatti risultate in calo del 18,3% rispetto allo stesso mese del 2023, con 643.637 unità vendute rispetto alle precedenti 787.812. I peggiori risultati sono stati registrati in Germania (-27,8%), Francia (-24,3%) e Italia (-13,4%) mentre in Spagna il calo è stato più contenuto: -6,5%. A frenare i consumatori, spiega Candolo, non è solo l’aumento dei prezzi in scia all’inflazione ma anche l’incertezza circa il futuro della mobilità elettrica. “Il settore è poco apprezzato dalla clientela a causa della limitata autonomia dei veicoli, dalla carenza di colonnine di ricarica e dei costi di acquisto più elevati rispetto ai motori endotermici”, è l’opinione dell’esperto. Che nota come a riflettere sul tema siano anche i consumatori più attenti all’impatto ambientale: “Sebbene la motorizzazione tradizionale superi nettamente quella elettrica in termini di emissioni di CO2 durante l’uso, se consideriamo l’intera filiera di produzione il vantaggio non è scontato”. Un ampio ventaglio di variabili al quale, da pochi giorni, si sono uniti anche il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la possibilità che il presidente repubblicano aumenti i dazi sui prodotti provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico.
L’ascesa della Cina
Proprio mentre l’Europa fatica a placare i dubbi della clientela e lasciarsi alle spalle il motore a combustione, a complicare ulteriormente la situazione c’è l’ascesa di un nuovo player sullo scacchiere globale: la Cina. Pechino ha infatti creduto molto nell’elettrico e, grazie a investimenti governativi che hanno permesso una rapida espansione della capacità produttiva di batterie, vanta ora un netto vantaggio nella corsa alla conquista di tale mercato. “Grazie a una combinazione di prezzi competitivi e tecnologie avanzate”, sostiene Candolo, “produttori locali come Nio e BYD stanno conquistando fette importanti di business”. Non a caso, la China Passenger Car Association ha annunciato che il numero di auto elettriche vendute nel Paese quest’anno ha superato quello delle ‘cugine’ endotermiche ed è così arrivato al 54%. Si tratta di un risultato importante, che fa il paio con quello di aver raggiunto già l’anno scorso un traguardo che il governo di Xi Jinping aveva fissato per il 2025: fare in modo che le motorizzazioni green raggiungessero il 20% di quelle totali del colosso asiatico.
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Anche gli USA sono un problema
Anche gli Stati Uniti rappresentano un problema per l’auto del Vecchio Continente. E ben al di là dell’incognita Trump. Già diversi anni prima che il tycoon tornasse, Washington aveva infatti preso sul serio la sfida del dominio cinese nella filiera delle auto elettriche in quanto minaccia alla leadership tecnologica e industriale dell’Occidente. Peccato che, sottolinea Candolo, l’amministrazione di Joe Biden abbia adottato un approccio molto più radicale al problema di quello messo in atto da Bruxelles: non solo, cioè, frenare la concorrenza ma anche reindustrializzare il Paese. “Attraverso una serie di incentivi”, spiega l’esperto, “il governo federale ha in sostanza puntato a spingere le aziende del settore perché investissero nella produzione interna e lanciassero così una sfida diretta alla superpotenza asiatica”. Un esempio viene dall’Inflation Reduction Act, che ha introdotto un credito d’imposta di circa 7.500 dollari per ogni auto elettrica acquistata a condizione che soddisfi due requisiti: il primo richiede che i materiali utilizzati nelle batterie siano estratti o lavorati in un Paese con cui gli Stati Uniti hanno un trattato di libero scambio o che siano riciclati in Nord America, il secondo stabilisce che le componenti delle stesse debbano essere prodotte o assemblate in Nord America.
Cosa manca davvero all’Europa
In sintesi, secondo Candolo, il confronto tra l’Occidente e la Cina nel settore automobilistico non è solo una battaglia economica ma una “competizione per la supremazia tecnologica e l’autonomia strategica”: chi controllerà le catene di approvvigionamento delle auto elettriche avrà cioè un’influenza decisiva sul futuro dell’economia globale, sulla sostenibilità ambientale e sul potere geopolitico. E se gli USA (che pure lo hanno capito) si limitano a cercare di preservare la propria rilevazione industriale e la propria leadership, l’Europa è ancora più lontana dall’approcciare la questione con la dovuta risolutezza. In ogni caso, è la conclusione dell’esperto, entrambe dovranno osare molto più: “Puntare su nuovi materiali di stoccaggio, meno dipendenti dal litio cinese, più puliti e sicuri, come il sodio o il manganese, ma anche su tecnologie completamente disruptive come le batterie allo stato solido, quelle a flusso o l’idrogeno”.
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