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Tra illiquidità fisiologica, necessità di incentivi fiscali e ruolo decisivo delle medie imprese, il professore ordinario di Finanza e dean della SDA School of Management analizza opportunità e criticità di un’asset class sempre più centrale
Negli ultimi anni i mercati privati hanno conquistato un’attenzione crescente, alimentando l’interesse di investitori istituzionali e anche di risparmiatori retail. Il trend è evidente: private equity, private debt e infrastrutturali sono diventati strumenti di diversificazione ricercati in un contesto di Borse volatili e tassi di interesse elevati. Ma cosa rende così attrattivo questo segmento e quali sfide deve affrontare? Stefano Caselli, professore ordinario di Finanza all’Università Bocconi e dean della SDA School of Management, offre una chiave di lettura lucida e senza scorciatoie. “Il punto centrale è che i mercati privati hanno caratteristiche di lungo termine e investire oggi significa accettare che il rendimento arriverà tra cinque o sei anni”. Un approccio che richiede pazienza, competenza e consapevolezza.

Il tema liquidità al centro
Il dibattito sulla liquidità rimane cruciale. C’è la crescente domanda di strumenti ‘semi-liquid’, che offrono finestre di uscita periodiche, e c’è la realtà di un’asset class che per definizione è illiquida. “Inutile cercare scorciatoie che non esistono”, avverte Caselli. “Se si vuole rendimento”, prosegue, “occorre accettare la natura di questi strumenti perchè ogni tentativo di renderli più liquidi inevitabilmente riduce le performance attese”. In tale contesto si inserisce l’ELTIF, lo strumento europeo nato per favorire l’accesso del risparmiatore retail a investimenti di lungo periodo: “Concettualmente è valido ma bisogna essere chiari sul fatto che non deve creare l’illusione di una liquidità estranea ai private markets non ha. Solo così può diventare un veicolo utile, senza generare false aspettative”.
Il nodo fiscale
Il vero game changer, secondo Caselli, è la fiscalità: “Serve una tassazione strutturalmente favorevole e non l’ennesimo incentivo spot”. Così si educherebbe il risparmiatore al medio-lungo termine, secondo l’accademico, “innescando un circolo virtuoso”. Un approccio che l’Italia non ha ancora pienamente adottato e sul quale altri Paesi europei sono invece già molto più avanti. “Mentre la fiscalità britannica sui fondi pensione è avanzatissima e la Svezia ha introdotto regimi che hanno dato grande impulso agli investimenti alternativi“, precisa a riguardo Caselli, “noi restiamo fermi a norme datate come quelle sui capital gain immobiliari e rischiamo di perdere competitività”. “Gli altri corrono, noi no”, è la sintesi dell’esperto. Il riferimento è anche ai PIR, i Piani individuali di risparmio, che dopo un avvio brillante hanno perso slancio. “Il primo problema è lo ‘scalino’ dei cinque anni, che ha indotto molti investitori a disinvestire non appena maturato il beneficio fiscale. Il secondo riguarda…

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