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Articolo pubblicato su FocusRisparmio (Marzo – Aprile 2022). Accedi e scaricalo gratuitamente a questo link.
Divisi sul Bitcoin: il mondo si divide fra amici e i nemici e nemici delle valute digitali, con i mercati emergenti che in netta maggioranza le osteggiano (rinunciando a vantaggi potenzialmente maggiori rispetto ai Paesi sviluppati)
Il mondo si divide sulle criptovalute, tra chi le asseconda e chi invece le osteggia. Ognuno con le sue ragioni, giuste o sbagliate. Ma per quanto oscuro sia ai più questo mondo, dei pregi le monete virtuali li hanno. Per esempio, favoriscono l’inclusione finanziaria, o ancora consentono di abbassare i costi dei trasferimenti di denaro, soprattutto quelli transfrontalieri. Fa strano, quindi, vedere che tra i principali nemici delle crypto, e in particolare del Bitcoin, ci siano i Paesi emergenti (ma non tutti); proprio quegli Stati che potrebbero trarre vantaggio dall’adozione di una moneta virtuale, sia per l’inclusione finanziaria sia per la maggiore economicità nel trasferire denaro.
Gli Stati più sviluppati, invece, si sono schierati al fianco delle criptovalute, probabilmente comprendendone le potenzialità e cavalcandone l’onda per non rischiare di rimanere indietro. Anche la Sec alla fine è capitolata, avallando l’anno scorso la quotazione in Borsa dei primi Etf con sottostante bitcoin dopo averla contrastata per anni. Un atto quasi dovuto, considerando che i replicanti delle criptovalute stavano trovando tanto spazio nelle Borse dei Paesi europei (ce ne sono di quotati in Svizzera, Germania, Olanda, Svezia e Francia). E intanto, tra stablecoin e criptovalute, il numero delle monete virtuali in circolazione è in costante aumento. Oggi se ne contano più di 17mila secondo CoinMarketCap, per una capitalizzazione complessiva che ha superato i 1.600 miliardi di dollari.
Bitcoin no
Cina, Bangladesh, Indonesia, Quatar, Kosovo, Bolivia, Cameroon e buona parte dell’Africa, oltre ad altri Paesi dell’Asia e del Medio Oriente. Sono tanti gli Stati che, direttamente o indirettamente, hanno detto no al bitcoin e alle criptovalute in generale. C’è chi ha imposto un divieto assoluto, chi ha vietato alle banche di “transare” monete virtuali e chi ha vietato anche il mining (ovvero l’estrazione) delle crypto. Le ragioni alla base di queste scelte sono diverse, ma ce ne è una in particolare che accomuna molti Paesi: l’eccessivo consumo di energia che, secondo l’ultimo aggiornamento del Cambridge Centre for Alternative Finance, è di 137,78 terawattora su base annua. Giusto per avere un metro di paragone, l’Italia ne consuma 286,37 di terawattora, il Messico 271,94, mentre Norvegia e Svezia rispettivamente 124,19 e 123,25.
Ma perché il mining consuma così tanto? Perché i minatori hanno bisogno di un’enorme potenza di calcolo per trovare quella “chiave” che permette di verificare e mettere in sicurezza le transazioni effettuate in bitcoin. È come se si dovesse indovinare una password composta da 10 caratteri numerici e alfanumerici. Le possibili combinazioni sono tante.
Se ipotizziamo le 21 lettere dell’alfabeto italiano e tutti i numeri da 0 a 9, ci sono circa 850 milioni di combinazioni con ripetizione. Con l’utilizzo del computer è possibile provare molto velocemente tutte le possibili password così da individuare quella giusta (chi la trova per primo otterrà una ricompensa in bitcoin). E se prima per fare mining poteva bastare un semplice computer, oggi l’attività di “estrazione” richiede l’utilizzo di più computer (oltre a una elevata potenza di raffreddamento per mantenere l’hardware costantemente in esecuzione), e quindi un maggior consumo di energia, in quanto le “password” sono diventate più difficili da trovare.
Il caso Cina
Anche la Cina si è schierata duramente contro il Bitcoin, dichiarando illegali tutte le transazioni in criptovalute effettuate nel Paese. Il provvedimento è stato adottato lo scorso settembre dalla Banca centrale cinese, convinta che la “speculazione tramite criptovalute stia turbando l’ordine economico e finanziario e favorendo la crescita di attività illegali”. Anche il mining ora è diventato illegale, ma molte società avevano già lasciato il Paese a seguito della stretta imposta sui minatori tra maggio e giugno del 2021. Una migrazione che ha permesso a Pechino di ridurre il consumo di energia (sfruttava circa i due terzi dell’offerta globale per produrre bitcoin).
Ma dietro la scelta della Banca centrale cinese non c’è una motivazione green, o almeno non solo. “Il bitcoin è una moneta decentralizzata, che quindi si sta sviluppando nella direzione opposta a quella della Cina; uno Stato che vuole centralizzare tutto e che di conseguenza ha paura della DeFi (Finanza decentralizzata) – commenta Massimo Siano, head of southern Europe di 21Shares –. Ma credo che Pechino stia facendo un errore, perché rischia di rimanere indietro sulla prossima rivoluzione (della blockchain, ndr), che avrà conseguenze non dissimili, se non più ampie, rispetto a quelle di Internet. Nei prossimi 5-10 anni, le più grandi società al mondo saranno tutte legate alla blockchain e quelle che non riusciranno a stare al passo con i tempi saranno cannibalizzate. Tra le top 20 dell’S&P500 non ce n’è una che non corra questo rischio. E Amazon è la prima di tutte”.
Bitcoin sì
A differenza delle maggior parte degli Emergenti, gli Stati più sviluppati hanno preferito cavalcare l’onda del bitcoin. È il caso del Giappone, dove è considerato un mezzo di pagamento volontario (Tokyo quest’anno lancerà anche la sua crypto-moneta, lo yen digitale), del Canada, della Svizzera (una vera e propria Silicon Valley del bitcoin), degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che sta lavorando su una regolamentazione ad hoc per le monete virtuali e all’immissione sul mercato di un euro digitale. Ma c’è solo uno Stato a oggi che ha legalizzato a tutti gli effetti il bitcoin: El Salvador…
E’ possibile leggere l’articolo completo nell’ultimo numero del magazine FocusRisparmio alle pagine 50-51-52. Accedi e scaricalo gratuitamente a questo link.
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