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Durante la pandemia è aumentata la componente liquida nei portafogli delle famiglie, ma anche la fiducia verso il consulente finanziario, che ora deve guidare il cliente nelle scelte di allocazione del ‘risparmio forzoso’ accumulato in epoca Covid
FocusRisparmio sta pubblicando in una serie di articoli le maggiori implicazioni operative del report completo Censis-Assogestioni, che sarà divulgato esclusivamente in questa forma. Le prime due puntate (di quattro) della serie sono disponibili qui:
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Il coronavirus è stato uno (stra)ordinario e inedito stress test per gli italiani e ne ha condizionato anche l’evoluzione del rapporto con il risparmio e le scelte su come allocare le risorse a disposizione.
Paura e cautela, necessità di difendersi più che di attaccare. Questi sono stati gli stati d’animo prevalenti nella popolazione del Belpaese nel corso dei quasi tre mesi di lockdown che si sono tradotti in un aumento della liquidità a disposizione nei portafogli e nei conti correnti dei cittadini.
Durante questo inedito periodo, i consulenti finanziari sono stati eccelsi nell’offrire, anche a distanza, il loro supporto: dal rapporto “Il valore della diversità nelle scelte d’investimento prima e dopo il Covid-19”, realizzato dal Censis in collaborazione con Assogestioni emerge che l’81% dei cittadini interpellati dichiara di essere molto o abbastanza soddisfatto per risultati raggiunti, fiducia, relazionalità, costi e supporto nelle decisioni dal suo consulente finanziario.
Del resto, i risultati del sondaggio trovano conferma nei numeri di raccolta messi a segno dalle reti di consulenza finanziaria nei primi sei mesi dell’anno (fonte: Assoreti). La sfida ora, per l’industria del risparmio gestito e il mondo della consulenza finanziaria, non è semplicissima: far tornare i risparmi e la liquidità accumulata dagli italiani per scopi precauzionali durante la pandemia, verso impieghi con rendimenti adeguati.
L’amico consulente
Dal punto di vista dei clienti, quindi, i consulenti finanziari hanno saputo fare la loro parte, cosa non certo scontata nella complessità inattesa e originale della situazione. La valutazione complessiva dei clienti esprime l’elevata social reputation dei consulenti – emerge dal rapporto – in un tempo in cui tante sono le professioni nei vari ambiti, anche di tipo consulenziale, che registrano score negativi, e non beneficiano della fiducia delle persone perché incapaci nella percezione collettiva di dare le risposte appropriate alle aspettative dei cittadini.
Peraltro, si registra una soddisfazione più elevata tra chi vive nel Nord Est (83,6%), i laureati (82,5%), gli alti redditi (88,8%) e i grandi risparmiatori (89%). Pensando al futuro, il 37,5% degli italiani che hanno un consulente finanziario si dichiara ottimista sulla capacità della consulenza finanziaria di affiancarli nelle proprie decisioni: un dato che raggiunge percentuali elevate tra le persone con redditi più alti (44,7%), che di certo avranno accumulato quote aggiuntive di risparmio nel lockdown e che ora devono decidere come impiegare il risparmio e per questo vogliono supporto dalla consulenza finanziaria.
Liquidi, sempre e comunque
Il rapporto Assogestioni-Censis sottolinea che l’accumulo di liquidità in portafoglio da parte degli italiani non è un sottoprodotto della mancanza di rendimenti adeguati, ma la modalità migliore per avere risorse subito pronte da spendere in caso di eventi avversi.
“La gestione dei soldi da parte dei cittadini è molto più che una fredda tecnicità, perché è l’esito complesso di attitudini e propensioni psicologiche in cui coesistono convincimenti razionali e impulsi inconsci, progetti strutturati e desideri incontrollati, conoscenze codificate e intuizioni destrutturate”, spiega il rapporto.
Gli italiani, quindi, stanno alla liquidità così come Linus sta alla sua celebre coperta: accumulare contante precauzionale in portafoglio è fenomeno socialmente trasversale, più forte tra i piccoli risparmiatori (35%) rispetto ai grandi risparmiatori (25,6%).
Sorpresa: (alcuni) italiani più ricchi in emergenza
Non tutti hanno perso soldi con la pandemia. Le categorie di lavoratori dipendenti nel settore servizi ha potuto tranquillamente esercitare il proprio mestiere da casa, a parità, o quasi, di reddito e con minori spese.
Cosa è accaduto al risparmio degli italiani ed alla sua distribuzione sociale durante il lockdown?
Il 38,9% degli italiani dichiara di aver migliorato il divario tra incassi e spese, cioè avere incrementato il proprio risparmio, ed è il 49,1% tra coloro che si definiscono risparmiatori abituali e il 57,8% tra gli alti redditi. Con introiti stabili e consumi giù per forza, molti italiani hanno visto incrementare il risparmio sui conti correnti: in particolare, il 51,1% attribuisce il maggior risparmio accumulato nel periodo del lockdown proprio alla riduzione obbligata nei consumi, e comunque ben il 44,7% ha continuato a percepire gli stessi redditi nel lockdown.
Ecco un protagonista sommerso, poco citato, ma così visibile e presente nel conto economico delle famiglie: il risparmio forzoso, che nasce dal divario tra redditi spesso intonsi e uscite tagliate per editto, tra quarantene e negozi blindati.
L’opportunità dei titoli di stato o il rischio del debito pubblico
Le celebrazioni sugli esiti delle aste dei Btp Italia e Futura appartengono alla retorica del primo post Covid-19: sono raccontate come una reazione positiva ad una sorta di test di affidabilità dello Stato italiano, in primo luogo sulla propria constituency primaria, quella dei cittadini e delle famiglie italiane.
Pur innegabile il successo degli strumenti citati, largamente acquistati da residenti italiani che hanno così ricalibrato il possesso sia rispetto agli stranieri che agli investitori istituzionali, tuttavia occorre rifuggire da facili entusiasmi, perché l’atteggiamento degli italiani verso il debito pubblico ed i suoi strumenti rimane ambivalente.
Tra gli italiani è presente, magari sottotraccia, la convinzione che il debito pubblico, pur motivato da ragioni ineccepibili, resta un macigno molto pericoloso per il futuro del proprio risparmio.
Non sorprende che gli italiani, risparmiatori e non risparmiatori, si dividano sulla disponibilità ad acquistare titoli del debito pubblico italiano, dai Bot ai Btp: il 51,4% non li acquisterebbe, di cui il 9% è contrario pur avendoli acquistati in passato. Il 43,7% li acquisterebbe, e il 16,4% lo ha già fatto in passato. Il 4,9% si dichiara indeciso, non sa bene cosa farebbe.
Le quote che non acquisterebbero titoli del debito pubblico sono elevate trasversalmente a territori e gruppi sociali ed in particolare, dicono di più no all’acquisto coloro che si definiscono grandi risparmiatori (53,8%).
Il rapporto con il debito pubblico è oggi non semplice: infatti, esso è percepito come esito di ineludibili e più che legittime spese decollate nel periodo eccezionale che il paese sta affrontando, per sostenere le persone e le imprese in difficoltà, e per dare respiro all’economia attanagliata da una crisi inedita per intensità e forme.
Tuttavia, ciò non redime il debito pubblico, non attenua tra gli italiani la percezione che la sua dimensione sia una minaccia, magari potenziale e per il momento rinviata in là nel tempo, ma comunque tale da pesare sugli stati d’animo, così da essere preso in considerazione nella valutazione del rapporto rendimenti/rischi.
Ecco perché all’idea di avere in portafoglio titoli pubblici, che pure in questa fase sono emessi a condizioni non così penalizzanti come accaduto per un periodo piuttosto lungo, non tutti i risparmiatori sono caldi e propensi all’acquisto.
Ben il 40% degli italiani che hanno risparmiato durante l’emergenza Covid-19 e che non acquisterebbe titoli pubblici, teme che il debito troppo elevato condurrà ineluttabilmente a misure straordinarie, dando forza ad una visione del debito pubblico come motore primo di una crisi finanziaria che poi inevitabilmente ricadrà sull’economia reale e, di conseguenza, su tutte le variabili, risparmio incluso.
In sintesi, l’ansia da eccesso di debito pubblico si è insinuata anche tra i cittadini e non è più tema per soli economisti e convegni. E la dimensione del debito pubblico dopo l’ondata delle spese legate all’emergenza Covid-19 è tale da innescare ben altro circuito di ansia e relativo rigetto del debito pubblico. Ogni sottovalutazione potrebbe essere letale
L’attuale neutralità dei mercati è puramente temporanea, perché si tornerà a subire le tante pressioni dovute ai troppi debiti, così come lo Stato si ritroverà stretto nella cinghia del servizio dei debiti e, quindi, nella necessità di rivedere anche le spese sostenute e i relativi finanziamenti.
I risparmiatori oggi, in parte cercano di beneficiare dell’emissione di titoli del debito pubblico mediamente più convenienti rispetto all’immediato passato, in parte vogliono essere compartecipi di una ricostruzione che passa anche dai prestiti dei cittadini allo stato, tuttavia, dall’altro verso, non sono completamente ciechi di fronte al rischio di inoltrarsi in un sentiero da cui poi è molto difficile tornare indietro e invece è molto facile, al mutare del contesto generale, trovarsi esposti a richieste di rientro dal debito dalle conseguenze deflagranti in primo luogo per chi i soldi allo stato li ha prestati.
La ricerca Assogestioni-Censis è stata costruita a partire da sentiment, opinioni e comportamenti rilevati su un campione nazionale rappresentativo di 1.000 cittadini con almeno 18 anni e attraverso interviste a un panel di consulenti finanziari operanti sul territorio nazionale. La rilevazione è avvenuta in due momenti, il primo nel periodo pre-Covid e il secondo a lockdown terminato.