Global corporate tax, primo passo tra le polemiche
L’intesa del G7 su un’aliquota al 15% per le multinazionali è solo l’inizio di un lungo cammino. La politica esulta ma alcuni Paesi frenano. Le Big Tech (per ora) approvano
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Tira aria di tempesta nella Silicon Valley. Negli ultimi giorni le big tech americane hanno infatti dovuto incassare due notizie non proprio rassicuranti. La prima è quella emersa dal G7 sull’accordo per applicare alle multinazionali un’aliquota minima comune a livello globale, la cosiddetta global minimum tax, che seppure ancora in forma embrionale (e con parecchia strada davanti prima di diventare realtà) penalizzerebbe soprattutto i giganti tecnologici. La seconda è invece la scelta del presidente Usa, Joe Biden, di chiamare alla guida della Ftc, l’antitrust a stelle e strisce, Lina Khan, 32enne professoressa della Columbia Law School nota per la sua crociata a favore di un ammodernamento delle norme contro i monopoli nell’era digitale, autrice del noto e dirompente articolo “Amazon’s Antitrust Paradox”.
Inevitabile quindi che a Seattle, Cupertino, Mountain View e non solo, il livello di allerta sia salito non poco. Anche gli investitori si stanno appunto chiedendo se per i titoli tech il vento a favore stia per smettere di soffiare. “In quell’articolo Khan – spiega Alberto Artoni, portfolio manager Us equity di AcomeA Sgr -, allora ancora studentessa a Yale, proponeva un’idea rivoluzionaria, in netto contrasto con le politiche antitrust attuate negli Stati Uniti negli ultimi decenni. In estrema sintesi, il principio secondo cui l’obiettivo principale delle politiche antitrust sia favorire il minor prezzo possibile per beni e servizi viene superato alla luce delle dinamiche competitive dell’economia contemporanea”.
Per Artoni, sebbene l’articolo in questione sia focalizzato sul caso Amazon, si intuisce facilmente come il nuovo modo di concepire la funzione dell’antitrust potrebbe avere un impatto significativo anche su altre grandi big della tecnologia. “Ricordiamo come la stessa Khan abbia collaborato alla commissione d’inchiesta proprio in questo ambito”, aggiunge, evidenziando anche come la nomina della giovane professoressa coincida con una crescente attenzione di consumatori, policymakers e regolatori nei confronti della privacy e dell’utilizzo dei dati personali da parte dell’industria del digital advertising.
A pesare c’è poi, appunto, anche la questione della tassa globale sulle multinazionali, che per Artoni avrebbe un impatto potenzialmente più marcato proprio sui grandi gruppi della tecnologia, che fanno ampio ricorso a varie pratiche di ottimizzazione fiscale. “È ad oggi difficile ipotizzare se e come una rinnovata Ftf potrà dar vita ad un nuovo corso, superando l’approccio storico incentrato sulla minimizzazione del prezzo per i consumatori – osserva il portfolio manager di AcomeA Sgr -. Un analogo livello di incertezza rimane anche riguardo ad eventuali nuove norme a tutela della privacy e/o al contrasto dell’ottimizzazione fiscale”.
Per Artoni va però constatato come l’elevato livello di concentrazione dell’indice S&P non rifletta ad oggi preoccupazioni particolarmente gravi. “I primi 5 titoli noti come Big Tech rappresentano circa il 20% dell’intero listino. Soltanto nel lontano 2000, poco prima di quello che fu poi definito come lo scoppio della bolla delle ‘dot-com’, il listino americano aveva raggiunto un simile livello di concentrazione. La Storia insegna che sui mercati la compiacenza e la mancanza di visione critica si possono pagare a caro prezzo”, avverte.
Nonostante le brutte notizie, per Eric Papesh, portfolio specialist Us equities di T. Rowe Price, non è ancora il momento di snobbare le big tech. Pur essendo questo, a suo dire, un momento molto favorevole per le small-cap, in portafoglio non possono comunque mancare alcuni titoli tecnologici. “In quasi tutte le fasi i titoli tecnologici large-cap hanno un ruolo da giocare all’interno dei portafogli degli investitori. La questione chiave riguarda piuttosto quali di questi titoli detenere – chiarisce -. Considerando la rapidità dell’innovazione e la quantità di disruption a cui si è assistito nel corso degli ultimi due decenni, la selettività è chiaramente un fattore chiave”.
E secondo Papesh, c’è un numero relativamente ridotto di società tecnologiche large-cap che sono oggi particolarmente ben posizionate per sfruttare i cambiamenti di lungo periodo in settori quali la ricerca web, l’advertising online e l’e-commerce. “Le valutazioni naturalmente contano e a volte i multipli rendono queste società meno attraenti a breve termine – precisa -. Tuttavia, se si considera un orizzonte temporale dai tre ai cinque anni, è probabile che grazie a tale posizione privilegiata queste società continuino ad accrescere le proprie quote di mercato, generando allo stesso tempo rendimenti positivi per gli investitori a lungo termine”.
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