Sospese le tariffe, che avrebbero avuto un impatto pesante sull’economia del Paese. Ma preoccupa il fatto che Trump continui a usare l’arma commerciale come strumento negoziale internazionale
Il nuovo fronte del conflitto commerciale portato avanti dagli Stati Uniti, questa volta contro il Messico, si è chiuso con un accordo (e un sospiro di sollievo da parte dei mercati): il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato che i dazi (che avrebbero visto l’applicazione di tariffe al 5% sulle merci messicane con successivi incrementi fino a raggiungere il 25% in ottobre) sono stati sospesi, e il Messico in cambio ha promesso un impegno senza precedenti per bloccare l’immigrazione clandestina dal confine meridionale.
Keith Wade, chief economist and strategist di Schroders, ha osservato che i dazi annunciati e poi sospesi avrebbero segnalato un ulteriore inasprimento delle tensioni commerciali in grado “di danneggiare la crescita non solo in Messico, in quanto i modelli macro statunitensi indicano che il Pil degli Stati Uniti potrebbe risultare più debole dello 0,7% nel 2020”. I dazi avrebbero senz’altro colpito il commercio, ma molti degli effetti di breve termine si sarebbero avvertiti nel calo della fiducia e nella debolezza dei mercati azionari, autorizzando ad aspettarsi un maggiore impegno della Fed sul taglio dei tassi.
Il punto è che questa minaccia pende ancora come una spada di Damocle sul Messico, che “conta su mercato statunitense per oltre il 30% del proprio Pil, quindi ogni nuovo dazio sulle esportazioni verso il Paese a stelle e strisce eroderebbe i margini di profitto e metterebbe a rischio una enorme mole di posti di lavoro”, osserva Stéphane Monier, chief investment officer di Lombard Odier Private Bank. Peraltro, il ragionamento espresso dalla Casa Bianca è che nuovi dazi sulle merci messicane potrebbero favorire il reshoring, cioè il ritorno delle compagnie oggi basate in Messico negli Stati Uniti. Ma è un ragionamento che secondo Monier non tiene: perché la disoccupazione negli Usa è bassissima (al 3,6%, ai minimi di 50 anni), e quindi il rientro delle aziende su suolo statunitense comporterebbe un forte rialzo dei salari. E va aggiunto che “il Messico è il più grande fornitore degli Usa di veicoli, componenti di auto e macchinari, un aspetto che rende difficile alle società manifatturiere americane trovare fornitori alternativi per componenti che nel corso della loro produzione attraversano il confine molte volte (e quindi verrebbero ripetutamente soggetti a tariffe)”, sottolinea Monier, ricordando che il rerouting (lo studio dei trasporti) delle merci in questo caso è molto più difficile che nel caso dei prodotti cinesi.
Per il momento comunque il Messico può contare sull’accordo Nafta (North Merican Free Trade Agreement) cui oltre agli Usa aderisce anche il Canada, che prevede scambi duty-free tra le tre economie. Ma resta il fatto che lo scampato pericolo sul Messico segnala un fenomeno ormai non più trascurabile: che gli Stati Uniti sotto questa amministrazione utilizzano la leva commerciale in maniera sempre più disinvolta, e che il conflitto assai probabilmente non resterà circoscritto alla Cina. “Il presidente Trump sta contando sempre di più sui dazi come un’arma di negoziazione nelle sue relazioni internazionali”, chiosa Monier.
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