Non c’è peggior sordo di Powell che non vuol sentire
La Fed continua a offrire prosperità senza fatica, fingendo di ignorare che le abbuffate di credito pongono le basi per un futuro crollo. L’analisi di Tcw
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Tutta colpa dei tassi zero? Forse no. Gran parte degli investitori teme che la persistenza di tassi di interesse bassi o negativi sia la causa del fatto che l’economia globale possa essere entrata in una fase di debolezza cronica della domanda, descritta dall’ex segretario al Tesoro Usa, Larry Summers, con la celebre espressione ‘stagnazione secolare’. Ma questa tesi non convince Nikolaj Schmidt, chief international economist di T. Rowe Price: “I tassi bassi senza precedenti degli ultimi anni sono il risultato di un processo di deleveraging prolungato che probabilmente a un certo punto è destinato a invertirsi. Per questo, l’economia globale è probabilmente più in forma di quanto i sostenitori della stagnazione secolare vorrebbero farci credere”.
Secondo l’economista, la riduzione della leva a partire dalla crisi finanziaria è avvenuta in quattro fasi, che hanno frenato fortemente l’economia globale negli ultimi 11 anni provocando enormi distorsioni: la fase acuta della crisi, che ha innescato il deleveraging dei bilanci Usa; la crisi del debito sovrano europeo, che ha dato avvio alla riduzione dell’indebitamento in Europa; il taper tantrum, che ha coinvolto principalmente i mercati emergenti (Cina esclusa), e infine il deleveraging cinese.
Quali sono queste distorsioni? Ve ne sono tre principali, per Schmidt. “Innanzitutto, negli anni precedenti alla crisi, le condizioni finanziarie accomodanti hanno facilitato un’esplosione dell’edilizia. Questo sviluppo, particolarmente marcato negli Usa e nelle economie più in difficoltà dell’Europa del sud, ha creato un ‘bagaglio’ di scorte in eccesso che deve ancora essere completamente smaltito. In secondo luogo, gli shock sul mercato immobiliare residenziale hanno danneggiato maggiormente i bilanci delle famiglie rispetto agli shock sui mercati finanziari. Sommandosi a standard di credito più prudenti, la svalutazione dei bilanci delle famiglie ne ostacolato l’accesso al credito. Infine, in risposta alla crisi finanziaria i deficit fiscali sono esplosi e i mercati emergenti, dove prima della crisi i bilanci del settore privato erano assolutamente solidi, hanno incoraggiato una rapida espansione del credito alle imprese”.
Inoltre, l’economista sottolinea come il processo di deleveraging non sia andato di pari passo in tutte le aree. “Negli Usa – spiega – se da un lato le famiglie hanno ridotto il proprio indebitamento, le società (escluse quelle finanziarie) lo hanno aumentato in modo significativo e i finanziamenti ottenuti sono stati impiegati principalmente per operazioni di ‘ingegneria finanziaria’ come riacquisti azionari, pagamento di dividendi e acquisizioni, che non supportano la crescita economica. In Europa e in Giappone, la riduzione della leva è stata più sfaccettata, ma vi è stato un forte impulso a contenere i deficit fiscali. Il deleveraging in Cina è il risultato di un cambiamento fondamentale nelle priorità politiche dalla crescita alla stabilità finanziaria e si è concentrato nell’area non-household”.
Cosa accade quando tutti vogliono ridurre la leva, ad esempio mettendo da parte dei risparmi, nello stesso momento? “La domanda più debole spinge la crescita al ribasso e l’eccesso di fondi mutuabili fa calare i tassi di interesse”, risponde Schmidt, secondo cui sarebbe però un errore pensare che vi sia qualcosa di ‘naturale’ in una riduzione secolare dell’indebitamento. In qualunque economia con una popolazione in crescita, il debito delle famiglie dovrebbe rappresentare una componente crescente dei redditi aggregati complessivi: l’aumento del numero delle famiglie richiede un aumento della disponibilità di abitazioni, che a sua volta richiede l’apertura dei mutui.
Secondo l’economista, conseguenza del processo di deleveraging è che esso ha lasciato l’economia globale con ben pochi sbilanciamenti: infatti, solitamente non si verificano boom di capex o di consumi in un’economia che sta riducendo l’indebitamento. “La maggior parte delle recessioni emergono in risposta agli eccessi; di conseguenza, da un punto di vista macro, l’economia mondiale si trova in una situazione insolita di resilienza, se si considera la durata già prolungata della fase di espansione attuale. Una correzione prima o poi sarà inevitabile, ma l’assenza di veri e propri sbilanciamenti macroeconomici dovrebbe attenuarne l’impatto”, evidenzia.
Siamo forse troppo poco preoccupati dei livelli di indebitamento in crescita nel settore corporate statunitense (banche escluse)? “Sicuramente si tratta di una fragilità che con tutta probabilità giocherà un ruolo importante nella prossima recessione. Tuttavia, dato che questo debito non si è propagato nell’economia reale nella forma di un’esplosione di capex, è improbabile che abbia creato distorsioni macro significative”, assicura.
Che cosa potrebbe spingere consumatori e imprese a tornare a prendere a prestito e sostenere la crescita? “Innanzitutto, occorre smaltire le ‘scorte’ nel settore immobiliare residenziale, ma anche questo non è sufficiente – risponde Schmidt -. Infatti, indebitarsi richiede un certo grado di fiducia nel futuro, di cui la stabilità politica è una componente chiave. Negli ultimi anni tuttavia abbiamo assistito alla disputa commerciale tra Usa e Cina, alla saga di Brexit e all’ascesa del populismo e dei partiti anti-establishment. Sarà necessario il ritorno a un certo grado di stabilità politica prima che famiglie e imprese tornino a spendere”.
Insomma, dal momento che la persistenza di una domanda contenuta e di tassi di interesse bassi degli ultimi dieci anni sembra essere il risultato di un processo di deleveraging, Schmidt conclude che l’economia globale è “in una posizione migliore rispetto a quanto prospettano i sostenitori della stagnazione secolare”.