Asset manager ed Esg: i tre temi del 2019
Fracassi (MainStreet Partners): “Oggi l’analisi di sostenibilità è un fattore essenziale nel processo di investimento, nella gestione del rischio e nella comunicazione finale con il cliente”
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I gestori sono fermamente convinti dell’importanza di includere le valutazioni Esg nelle proprie strategie di investimento, ma spesso non riescono a dare un’attuazione pratica a questa volontà a causa di una difficoltà nell’applicazione di criteri condivisi. L’evidenza arriva da uno studio di Equita volto ad analizzare come il processo di inclusione delle valutazioni e dei fattori Esg sia stato incorporato nelle strategie di investimento degli asset manager italiani, che ha coinvolto le principali case di investimento attive nel Paese. Il 24% dei rispondenti dello studio non tiene in considerazione i criteri di sostenibilità nel processo di investimento, il 56% ne tiene conto solo marginalmente, e appena il 20% delle società interpellate ha strutturato un team interno per effettuare l’analisi Esg delle società che costituiscono il potenziale target di investimento. “Non si mette in discussione il supporto degli asset manager alla sostenibilità negli investimenti, su cui la direzione è ormai segnata. Si tratta piuttosto della difficolta di passare dalla dichiarazione di intenti alla implementazione pratica”, spiega Domenico Ghilotti, co-head dell’Ufficio studi di Equita.
Come mai questa difficoltà di passare “dal dire al fare”?
Per implementare i criteri Esg nelle strategie di investimento occorre strutturare un team interno, che faccia analisi, assessment e due diligence, e che quindi certamente richiede una dimensione adeguata. In alternativa, occorre affidarsi alle valutazioni di soggetti esterni. Ma anche questa seconda opzione genera perplessità tra gli asset manager, che vedono risposte diverse dalle diverse agenzie e scarsa correlazione tra i rating dei player più importanti, perché non è ancora stata sviluppata una standardizzazione dei Kpi più importanti, sulle modalità di analisi e sul relativo peso. È un aspetto che disorienta l’investitore, perché per esempio nell’analisi del credito c’è molta più univocità: magari si registrano delle differenze di approccio ma il responso finale tende a essere convergente. Sui rating Esg questo non avviene.
In questo senso, il lavoro che sta portando avanti l’Unione Europea per stabilire una tassonomia degli investimenti alternativi può aiutare il processo di implementazione dei criteri Esg nelle strategie degli asset manager attivi in Italia?
Senz’altro, la decisione di muoversi sulla tassonomia va certamente incontro alla risoluzione di queste criticità, che sono state percepite anche a livello istituzionale. Ma certamente si tratta di processi lunghi, perché si dovrà entrare molto nel dettaglio. Anche negli Stati Uniti Sasb ha definito una tassonomia su quelli che sono i Kpi della sostenibilità, e penso che alla fine tra gli standard americani e quelli europei ci saranno certamente delle differenze ma una convergenza.
C’è differenza nella sensibilità degli investitori alle diverse sfaccettature (ambiente, sociale, governance) della sostenibilità?
La ricerca ha rilevato che tutti e tre gli aspetti sono importanti per gli investitori, ma se su un aspetto sulla governance c’è una maggiore uniformità di vedute su quelli che sono i parametri più importanti (per esempio l’analisi della composizione del board e le politiche di remunerazione), sul fronte sociale invece c’è maggiore confusione, sia da parte delle risposte che dovrebbe dare la società sia su quello delle domande che dovrebbero fare gli investitori. Sul fronte ambientale i temi preponderanti e i Kpi sono molto più chiari ed esistono già diversi standard, ma certamente un elemento importante da considerare è la materialità, e calare nel contesto di settore gli sforzi fatti in tema di sostenibilità ambientale, senza demonizzare settori dell’economia non considerati green ma comunque indispensabili.
La ricerca rileva che le società che si sono dotate di un team interno per la valutazione Esg sono ancora una minoranza. Un problema di costi? Si cerca di limitarli in un contesto competitivo che crea già pressioni sui margini?
Sicuramente è un tema, la pressione sui margini non invita in generale ad allocazioni di risorse. Ma è principalmente una questione strutturale, per cui per dotarsi di un team è necessario avere determinate masse. Tuttavia, anche la boutique può sopperire alla mancanza di una organizzazione strutturata con un engagement forte, cioè instaurando un rapporto costante, anche sulle tematiche Esg, con le società in portafoglio. Si può magari fare affidamento alle agenzie di rating e poi organizzarsi con analisi supplementari internamente. Mi aspetto una differenza di approccio tra società piccole e grandi, ma in ogni caso chi non si organizza per implementare la sostenibilità negli investimenti rischia di essere schiacciato sul fronte della raccolta: se c’è domanda per gli investimenti Esg gli asset manager devono rispondere con un’offerta adeguata.
Una vostra precedente ricerca su Esg e Pmi evidenziava anche delle carenze nella comunicazione non finanziaria da parte delle aziende più piccole e nelle interazioni con le agenzie di rating. Questo aspetto è parte del problema? E non rischia di vanificare gli sforzi fatti a livello istituzionale per indirizzare gli investimenti verso le Pmi?
Certamente, le agenzie di rating fanno fatica a seguire le small o micro cap, che a loro volta sono piuttosto impreparate sul fronte Esg, perché in fondo hanno iniziato a sentirsi rivolgere domande sulla sostenibilità da 12-24 mesi. Ma senza rating il rischio è proprio che le società più piccole – che rappresentano una fetta importante del tessuto economico del Paese – vengano marginalizzate dall’universo investibile dai fondi che hanno adottato criteri di sostenibilità. E se comincia a scarseggiare l’offerta di capitale per queste aziende, vuol dire che il costo del capitale per loro diventa più alto, con un evidente svantaggio competitivo.
Quindi occorre anche un salto culturale da parte delle Pmi?
Quello che cerchiamo di fare con Equita è di aiutare le aziende a organizzare dei set informativi, in modo che anche le società che non hanno rating siano in grado di fornire risposte sulla sostenibilità, aiutando anche gli investitori e i rating provider a ridurre gli sforzi e aumentare la copertura su queste realtà. Molte società magari sono già attente alla sostenibilità – per esempio con una serie di politiche a favore dei dipendenti o alle comunità del territorio – ma non sanno comunicare i loro sforzi in questo senso; quindi noi in primo luogo le aiutiamo a capire cosa già fanno e a comunicarlo, e in secondo luogo a capire gli aspetti su cui invece sono carenti e sui quali devono fare dei passi in avanti. Invitiamo le aziende a utilizzare questi modelli informativi e anche a renderli disponibili sui rispettivi siti, in modo da pubblicare una sorta di scheda sintetica dei Kpi Esg.
Questo dovrebbe aiutare il lavoro di investitori e agenzie di rating e ampliare la copertura?
Certamente. Un’ultima cosa che tengo a sottolineare è che è fondamentale il tema dell’engagement: di fronte a ogni valutazione è fondamentale un canale di comunicazione diversa tra società di rating ed emittenti, tra analisti e società. Quando c’è una criticità, la cosa più importante è discuterne con la società, che può rispondere migliorando il proprio posizionamento o chiarendo perché quella criticità è vista come irrilevante. Il tema è relativamente nuovo e su questo fronte vanno affinate anche le strategie di analisi.