Dazi, la tregua favorisce l’azionario cinese
Basterebbe che il sentiment del mercato sull'esito della guerra commerciale passasse da molto a meno pessimista per assistere a un rimbalzo rispetto ai bassi livelli attuali
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La tregua commerciale tra Usa e Cina scade a fine febbraio. E così torna in campo il tema dell’inasprimento delle tariffe dei prodotti cinesi che arrivano in Usa, che passerebbero dal primo marzo al 25% dal 10% attuale, con tutto ciò che ne consegue. A meno che i due protagonisti sul campo di battaglia, ovvero Donald Trump da un lato e Xi Jinping dall’altro, non trovino un accordo. Scenario possibile dopo l’ultimo positivo round di negoziati tra i due, che potrebbero incontrarsi a breve in Vietnam, dove Trump ha in programma un meeting con il leader nordcoreano Kim Jong-un per discutere di nucleare. Lo stesso Trump è possibilista su un accordo.
Per dire la parola fine alla trade war che tiene con il fiato sospeso i mercati, Trump chiede alla Cina una riduzione del deficit fiscale di 350 miliardi l’anno che si dovrà ottenere attraverso l’aumento degli acquisiti di materie prime Usa, soprattutto soia e gas naturale, ma anche servizi, con quelli finanziari in pole position. Quello su cui Pechino sembra più reticente è la pretesa Usa di un cambio di paradigma nel sistema, che dovrebbe sostanziarsi in una riduzione del peso pubblico nell’economia.
L’accordo sarebbe auspicabile per la Cina, che si trova in una fase di progressivo rallentamento macro che proseguirà almeno fino al 2021 secondo la World Bank: “Se dovesse esserci un’escalation delle tariffe, con il passaggio immediato dal 10 al 25%, la Cina subirebbe un impatto decisamente significativo, fino all’1% sul Pil”, dice a Focusrisparmio.com Marco Piersimoni, senior portfolio manager di Pictet asset management. Ma la guerra non conviene neppure al resto del mondo. Ed è lo stesso Piersimoni a spiegare perché. Prima facciamo un piccolo passo indietro, ricordando come e perché nasce la trade war.
“La Cina è entrata nel Wto nel 2002 con i vantaggi concessi ai Paesi emergenti di cui ancora beneficia nonostante sia a ogni effetto un’economia emersa: le tariffe medie sono del 10%, contro il 5% dell’Europa e il 3% dell’America – dice Piersimoni – Queste sperequazioni vanno senza dubbio riviste, ma per valutarne gli effetti è necessario prima analizzare quanto l’America dipenda dalle importazioni cinesi. L’America importa circa 2300 miliardi di dollari dal resto del mondo, principalmente da Cina e Unione Europea. Per il momento sono state minacciate tariffe su circa un terzo di questo valore, ma è stato implementato poco più del 10%, ovvero su 250 miliardi di dollari di import (di merci per lo più cinesi)”.
Chiaramente il resto del mondo non è rimasto fermo a guardare: l’export americano ammonta a 1500 miliardi di dollari principalmente verso Europa, Canada, Messico. “Anche in questo caso, le tariffe implementate dal resto del mondo nei confronti degli Stati Uniti sono state su 135 miliardi, ovvero circa il 10% del totale – dice Piersimoni – Dunque, in sintesi, l’America ha imposto dazi e tariffe sul 13% del proprio import e ha subìto dazi e tariffe sul 10% del proprio export. Immaginando che le tariffe si ripercuotano sulla bilancia commerciale con un’elasticità pari a 1 (un livello che consideriamo neutrale) il danno inferto alla Cina da dazi e tariffe americane per il momento ammonta allo 0,3%; mentre quello dal resto del mondo all’America è di -0,1%”.
In sostanza, dunque, fino a oggi, il danno economico diretto negli Usa è stato prossimo allo zero, da cui deriva la relativa calma nei mercati. Tuttavia, se da marzo il quadro dovesse cambiare, per il Pil globale l’effetto sarebbe disastroso. “L’esercizio fatto dal Fondo Monetario e validato anche dalla Banca Centrale Europea rivela che se il resto del mondo dovesse reagire di conseguenza al rialzo delle tariffe Americane, questo avrebbe un impatto sulla crescita mondiale pari al -2,5%, che equivale a una recessione globale – conclude Piersimoni – La conclusione è che se dovesse accelerare la guerra commerciale il danno serio e duraturo sarebbe per la crescita, dopo che ad essere attaccata è stata l’inflazione. Il protezionismo è uno shock stagflattivo, ossia comporta una stagnazione economica con maggior inflazione”.