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Al Salone del Risparmio la conferenza “Fit For 55: crisi geopolitica e obiettivi climatici” analizza l’impatto di Covid e guerra sugli impegni ambientali. Le istituzioni: si va avanti, Europa in prima linea
Fit For 55 è l’obiettivo che l’Unione europea si è data nel percorso per diventare il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050: cioè la riduzione delle emissioni di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Nel frattempo, però si sono palesati un paio di quelli che in finanza sono definiti “cigni neri” – prima la pandemia poi la guerra in Ucraina – che hanno leggermente modificato l’ordine delle priorità – per esempio, spingendo a riprendere in considerazione il carbone per facilitare l’emancipazione dal gas russo -, e la domanda che si pongono molti osservatori è se questi fattori siano in grado di far deragliare la corsa verso la neutralità climatica. Al tema è stata dedicata la conferenza “Fit For 55: crisi geopolitica e obiettivi climatici”, organizzata da Assogestioni nella prima giornata della dodicesima edizione del Salone del Risparmio.
La conferenza è stata aperta da Stefano Pareglio, Professore ordinario di Economia politica ed Economia dell’ambiente e delle fonti energetiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che ha definito il contesto macro economico in cui si inseriscono gli impegni ambientali come il Fit for 55 e gli altri impegni assunti dai governi. Secondo l’economista, innanzitutto l’attuazione di una mitigazione del clima che “ci consenta di raggiungere gli obiettivi di Parigi è una possibilità concreta”, i cui principali alleati sono “la tecnologia e la disponibilità di capitale per gli investimenti”. Ma quali strade abbiamo per mitigare gli effetti delle emissioni di gas serra? Per Pareglio ridurre la domanda d’energia, dare priorità alle rinnovabili, cambiare stili di produzione e consumo. “Il clima sta cambiando, e noi ce ne occupiamo perché l’inazione climatica produce effetti fisici che hanno dei costi crescenti, e che a un certo punto diventano irreversibili”, spiega il docente, ricordando però che anche limitare l’impatto dell’effetto serra ha un costo, che corrisponde – appunto – al costo della transizione.
A che punto siamo sull’allineamento agli obiettivi climatici
Se tutte le promesse assunte dai governi – che, ricorda Pareglio, non sono vincolanti – venissero rispettate, si conterrebbe il riscaldamento globale entro 1,8 gradi, che è pur sempre di più dell’1,5 auspicato. “Gli scenari che usiamo hanno gradi di riscaldamento crescenti”, spiega Pareglio, indicando che gli unici che dovremmo prendere in considerazione per evitare effetti nefasti irreversibili sono i primi tre, che spaziano da un riscaldamento entro 1,5 gradi fino ai 2 gradi. Obiettivi che richiedono impegni molto intensi e limitazione dei gas serra (non solo la CO2), e azioni non solo di riduzione ma anche di assorbimento delle emissioni. Su questo fronte, la risposta e la capacità di mitigazione cambia da settore a settore. E ovviamente quello posizionato meglio è l’energia, dove i costi delle rinnovabili hanno già raggiunto soglie di costo più vantaggiose rispetto all’energia fossile.
Come si inserisce l’Italia nel piano degli impegni internazionali
Nel secondo keynote speech della sessione, Renzo Tomellini, Capo della segreteria tecnica del Ministero della Transizione Ecologica, ha analizzato gli impatti delle tensioni geopolitiche sugli obiettivi climatici del nostro Paese e la direzione degli impegni. “Dobbiamo continuare ad investire in transizione energetica ed ecologica. Gli eventi drammatici che stanno succedendo ci portano a modulare alcune scelte, ma non c’è nessuna inversione di rotta”. Tomellini ha ricordato che è da circa mezzo secolo che il problema dell’ambiente ha iniziato a essere affrontato, e ha menzionato i vari eventi che nel corso degli anni hanno definito e rafforzato la consapevolezza sulla necessità di perseguire modelli più virtuosi, dal riconoscimento dei limiti dello sviluppo, alla sensibilità sul riscaldamento globale, alla definizione di obiettivi di sostenibilità, che oggi “non passano solo dall’ambiente, ma anche da economia e società tutta”.
Tomellini ha ricordato che quest’anno, a febbraio, una legge costituzionale ha inserito la tutela dell’ambiente nella Costituzione italiana, e che il governo si è dotato di un apposito comitato interministeriale che l’8 marzo ha approvato un Piano per la transizione ecologica. “Ricordiamo che la transizione impone un cambiamento profondo e integrato del modo di produrre, consumare, spostarsi, vedere il fine vita dei prodotti, approcciarci all’energia. Viviamo quello che gli esperti definiscono Antropocene, una nuova era geologica in cui la razza umana ha preso il controllo del pianeta in maniera sostanziale, e a cui di conseguenza si chiede uno sforzo di responsabilità supplementare rispetto a quando la popolazione era più bassa”, ha dichiarato l’esperto del Mef, ricordando che entro il 2050 la popolazione mondiale sarà cresciuta di altri 2 miliardi di persone. In un simile contesto, “la decarbonizzazione è una scelta inevitabile. Non si può assolutamente pensare che gli sviluppi geopolitici ci diano una inversione di rotta, ma evidentemente l’interes sedel governo è di evitare che ci siano reazioni che possano pesare sulle fasce della popolazione più fragili. Quello che cambia è la modalità, non la direzione della transizione”, conclude.
Transizione e investimenti finanziari
I lavori sono proseguiti con una tavola rotonda su come affrontare la transizione ecologica dal punto di vista degli investimenti. Monica Defend, Head of Amundi Institute, ha esordito sottolineando che gli asset manager hanno un ruolo fondamentale nell’indirizzare le risorse verso la transizione. Per quanto riguarda le evoluzioni future, e le ricadute finanziarie degli scenari climatici, Defend ha chiarito che “molto dipenderà dall’evoluzione e dalle posizioni dei Paesi verso il 2050. Pensiamo che Cina, India e Russia arriveranno dopo – ci aspettiamo una transizione disordinata – e che questo rallenterà il processo”.
Per Andrea Conti, Head of Macro Research di Eurizon Capital Sgr, ci sono tre punti da considerare. Il primo è che “stiamo affrontando una vera rivoluzione per l’umanità, che ha sempre pensato all’energia come a una risorsa abbondante e a basso costo ignorandone le esternalità negative, e adesso deve trovarne un’altra forma, sempre abbondante e a basso costo ma con esternalità positive”. Il secondo punto riguarda il fatto che “la transizione sarà lunghissima e complicata e metterà in moto reazioni di secondo ordine di cui tenere conto”. E il terzo è un quesito: “Chi paga per queste reazioni? Non possono essere le imprese, perché disincentiverebbe gli investimenti. Né tantomeno le famiglie. Quindi il peso sugli attori pubblici deve essere preponderante”.
Alessandro Tentori, Cfo di Axa IM, ha osservato che “la transizione verde è di fatto una transizione tecnologica, perché ci spostiamo dalla produzione con una modalità che comprendiamo a un’altra di cui non sappiamo quasi niente: quanto costerà, come funzionerà, eccetera. C’è una forte incertezza sugli effetti sull’output, che potrebbero anche essere negativi”. Il rischio, aggiunge, è che ci esponiamo su tecnologia che si dimostra sbagliata, che potrebbe avere un costo altissimo e produrre perdita di output. Ma per fortuna secondo Tentori “siamo in uno stato transiente, che ci dà capacità e tempo per trovare la strada giusta”.
Bruno Rovelli, chief investment strategist di Blackrock, ha osservato che “è importante stabilire qual è il benchmark di riferimento con cui misuriamo i nostri risultati. Se il banchmark è ‘il riscaldamento climatico non esiste’ qualsiasi scelta produce inflazione e risultati negativi. Ma se incorporiamo un benchmark adeguato, che ci impone di considerare i costi dell’inazione, allora le scelte produrranno risultati migliori”.
Sul fronte dei costi della transizione e della sua accettabilità sociale, Rovelli ha affermato che “è probabile che una parte del mondo non cooperi”. In un contesto che si muove da un modello cooperativo – la globalizzazione – a un modello non cooperativo, “indipendentemente da quello che fanno Paesi industrializzati, la transizione sarà impossibile non solo entro il 2050 ma anche entro il 2070”. A frenare saranno in particolare gli emergenti, cui mancano o la flessibilità o l’incentivo per attivarsi verso la transizione. Solo ha Cina ha la flessibilità finanziaria e forse l’incentivo a muoversi verso il net zero.
Europa in prima linea
Stefano Cappiello, Direttore della Direzione V Regolamentazione e Vigilanza del Sistema Finanziario del Mef, ha sottolineato che l’Europa è in prima linea sugli investimenti nella transizione, ricordando che “dei 2,7 trilioni di asset in gestione sostenibili, l’80% ha targa europea: quindi gli sforzi profusi in questa direzione stanno dando i loro frutti”.
“La situazione contingente porta un rallentamento nella transizione? Decisamente no, anzi comporta un’accelerazione perché dimostra che attraverso un maggiore ricorso alle rinnovabili raggiungiamo una indipendenza strategica prioritaria”, ha dichiarato Cappiello. L’esperto ha anche ribadito l’importanza di un mix di investimenti pubblici e privati, e quindi del risparmio gestito. “Il Pnrr è condizione necessaria ma non sufficiente, perché ha un orizzonte di solo cinque anni e perché pur essendo potentissimo (circa 60 miliardi a favore della transizione ecologica) il funding gap in Europa per raggiungere gli obiettivi è di 500 milioni ogni anno, quindi occorre spostare risorse private che vengano allocati attraverso mercati efficienti.
L’Italia è consapevole dell’importanza di agire, e di farlo in modo coordinato. “Al Mef abbiamo messo la finanza sostenibile al centro dell’agenda G20, e stiamo istituendo tavolo di coordinamento sulla finanza sostenibile con authority e ministeri, perché siamo coinvitni che serva approccio olistico”, ha dichiarato Cappiello, aggiungendo che il ministero “è pronto a lanciare un piano di azione elaborato assiema alla Commissione Europea”.
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