Usa, chi di dazi ferisce…
Beani (Amundi Sgr): "Tra le obbligazioni societarie, la nostra preferenza continua ad andare ai mercati del credito europei"
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La sfida continua. Gli Usa hanno imposto dazi del 15% su beni importati dalla Cina per 111 miliardi di dollari, e Pechino ha stabilito tariffe del 5 e del 10% su una lista di oltre 5mila prodotti provenienti dagli Stati Uniti, che valgono in totale 75 miliardi. Chi scommetteva tempo fa su una veloce risoluzione del conflitto si sbagliava perché, nonostante i segnali di distensione che ogni tanto arrivano, poi puntualmente si ritorna al punto di partenza. Tanto che molti esperti sono convinti che siano questi il “new normal” e che, di fatto, la politica estera di Donald Trump trova nella minaccia e nell’applicazione di dazi uno dei suoi principali pilastri.
Ma c’è da avere paura delle guerre commerciali? Non troppo. Innanzitutto perché, secondo alcuni, lo stesso Trump non può permettersi le ricadute politiche di un rallentamento dell’economia legato alle trade war. “Se il presidente Trump punta alla rielezione nel 2020, dovrebbe affrettarsi a stringere un’intesa con la Cina, per scongiurare che un accordo possa rivelarsi tardivo. Questo anche alla luce della strategia di Pechino che, improntata a negoziazioni compassate, sembra al momento in vantaggio su Washington”, afferma Alberto Conca, responsabile degli investimenti di Zest Asset Management.
L’esperto argomenta che, se si osserva il modello di probabilità di recessione elaborato dalla Federal Reserve di New York, sembra esserci la conferma del fatto che adesso gli investitori siano inclini a ritenere più probabile una recessione nel 2020 e, di conseguenza, puntano a scontare in modo più aggressivo l’attuale livello degli utili. D’altra parte, gli effetti della guerra commerciale tra Washington e Pechino, avviata da Trump oltre un anno fa, comincia a far sentire i suoi effetti negativi sia sui dati macro economici e sia sulle aspettative, cioè sulla disponibilità delle società a investire e la pressione sui margini aziendali. Secondo Conca, è ancora probabile un accordo prima della fine dell’anno e, se così fosse, il mercato azionario risulterebbe l’asset class con le migliori opportunità.
Sostanzialmente d’accordo anche Thomas Lehr, Capital Market Strategist di Flossbach von Storch, convinto che non sia il caso di abbandonare le azioni: “Per come la vediamo noi, è quasi impossibile pronosticare in modo serio e affidabile le future sorti del conflitto. A lungo andare non sarà più solo questione di dazi: le potenze mondiali lottano per conquistare l’egemonia sul piano tecnologico, politico ed economico. E se da un lato il Presidente Usa è una sorta di mina vagante (e non solo in campagna elettorale), non dimentichiamo che ha promesso al suo elettorato benessere e lavoro: una crisi economica e un crollo sul mercato azionario andrebbero a demolire il bilancio del suo mandato, mettendo in pericolo la sua rielezione”.
Per lo strategist l’attuale clima di incertezza è già scontato nell’attuale livello dei corsi. “Le azioni delle società cicliche sembrano persino convenienti in un’ottica pluriennale, considerando i rendimenti da dividendi e i rapporti prezzo-utili. I titoli più difensivi, quelli delle aziende che conseguono rendimenti stabili non solo durante le fasi di crescita, risultano meno colpiti. Persino un investitore che due anni fa si attendeva una costante escalation con la continua imposizione di nuovi dazi avrebbe potuto guadagnare investendo nel mercato azionario”, osserva Lehr.
Mark Haefele, global chief investment officer Gwm di Ubs Ag, sottolinea che gli annunci di nuovi dazi accrescono i rischi e potrebbero indurre la Fed a intervenire in modo più aggressivo: le stesse parole di Jerome Powell a Jackson Hole “hanno rafforzato la nostra convinzione che la Fed effettuerà un allentamento monetario sufficiente perché la curva dei rendimenti torni ad assumere un’inclinazione positiva”. Agli attuali prezzi di mercato, per l’esperto sarebbero necessari ulteriori tagli dei tassi per 75 punti base. Il mercato sembrava essere d’accordo, alla luce della reazione relativamente contenuta dei listini sia azionari che obbligazionari. Ma successivamente sono arrivate indicazioni per una possibile escalation, ed è quindi probabile che la Fed debba rivedere i suoi piani.
“Il rischio per l’economia e i mercati finanziari è che probabilmente, nello scenario negativo di una tariffa del 25-30% su tutte le importazioni cinesi negli Stati Uniti, anche un allentamento monetario più aggressivo sarebbe insufficiente e giungerebbe troppo tardi. Pertanto, a nostro avviso le prospettive del mercato a breve termine dipenderanno essenzialmente dalla politica commerciale, non dalla politica monetaria”, commenta Haefele, convinto comunque che per il momento gli Usa riusciranno a evitare una recessione per il primo anno. Nel complesso, per Haefele l’attuale contesto giustifica un approccio equilibrato all’assunzione di rischio nei portafogli. “Nella nostra asset allocation tattica, raccomandiamo di potenziare i rendimenti mediante una combinazione di posizioni di carry su valute dei mercati emergenti, debito sovrano emergente in valuta forte e obbligazioni investment grade in euro. Manteniamo inoltre sovrappesi selettivi su azioni statunitensi e giapponesi che dovrebbero ottenere buoni risultati se il nostro scenario di riferimento (nessuna recessione) si dimostrasse corretto. Tuttavia, deteniamo anche posizioni anticicliche, in particolare un’esposizione allo yen giapponese e un’opzione put sull’S&P 500, per gestire i rischi di ribasso”, conclude Haefele.