La ricetta antivolatilità dell’esperto si basa su una ferrea selezione delle società, scelte tra le small cap, che consentono una maggiore diversificazione e danno risultati positivi anche in fasi di mercato avverse
Massimo Fuggetta, Cio di Bayes Investments
“Noi crediamo nell’Italia indipendentemente dalla congiuntura economica, è la nostra filosofia”. A dirlo è Massimo Fuggetta, Cio di Bayes Investments, l’investment advisor del Made in Italy Fund (MIF), un sub-fund di Atomo Sicav, gestita dalla lussemburghese Casa4Funds SA. Secondo Fuggetta è sempre un buon momento per posizionarsi sull’azionario italiano, soprattutto sulle società di piccole dimensioni, che offrono una migliore diversificazione e rappresentano meglio delle big la reale composizione del tessuto imprenditoriale nazionale. La ricetta di Fuggetta per un portafoglio solido, con bassa volatilità e performance positive, è una strategia di lungo periodo, basata sul value investing, che muove da una selezione rigorosa delle società, che premia le market leader in specifiche nicchie di mercato, con management capace e prospettive di crescita di lungo periodo.
Quello attuale è un buon momento per investire sulle azioni italiane?
È sempre il momento giusto di investire sulle azioni italiane, perché il nostro Paese vanta una vastissima platea di belle società, ben gestite, profittevoli. Basta cercarle.
Per il prossimo futuro siamo abbastanza fiduciosi, sia per quanto riguarda la ripresa dell’economia sia sull’andamento dei mercati, ma in ogni caso noi crediamo nell’Italia indipendentemente dalla congiuntura economica, è un po’ la nostra filosofia. Certo, se si guarda all’Italia con un approccio top-down è difficile pensare al Paese come un buon posto in cui investire, perché ci sono sempre difficoltà e problemi cronici. Questo porta a sottopesare il Paese, se non addirittura a ignorarlo.
Noi ci ispiriamo a Warren Buffett, che dice sempre “mai scommettere contro l’America”: il nostro principio è lo stesso, vogliamo sostenere il mercato italiano dove sappiamo di trovare valore. In qualsiasi momento, anche nelle fasi critiche come quella attuale, dove anzi la discesa delle valutazioni rappresenta un’opportunità.
Con il Made in Italy Fund vi focalizzate solo sulle aziende con capitalizzazione inferiore al miliardo di euro. Perché?
Tipicamente, chi investe sull’azionario italiano lo fa con un approccio che parte molto dal contesto macro, non sempre favorevole, e con strumenti che tendono a ruotare attorno all’indice FtseMib, che include le 40 bluechip del mercato italiano. Il punto è che il FtseMib è piuttosto sbilanciato su quattro settori principali: la finanza, le utility, l’energia con Eni, beni di consumo. Per oltre due terzi è focalizzato su questi settori, quindi chi investe su questo indice non si rende conto che sta sottoinvestendo su tutti gli altri settori. E anche su quella che costituisce la vera ossatura dell’economia italiana, le small cap, che rappresentano circa l’80% dei titoli quotati in Italia ma appena l’8% del valore di mercato. E consentono di investire su di un universo molto più diversificato rispetto a quello delle bluechip.
È per questo che lo Star, per esempio, sovraperforma sempre meglio degli altri indici?
Certo. Noi non prendiamo in considerazione lo Star per le nostre strategie, perché pensiamo che sia sbagliato parametrare un fondo a un indice, ma di sicuro questo segmento testimonia la bontà delle nostre scelte, perché negli ultimi anni non ha sovraperformato solo gli altri indici italiani, ma anche gli altri indici europei.
Come si costruisce un portafoglio di successo sulle small cap?
Abbiamo un portafoglio di 30 aziende, tutte small cap, molte quotate sull’AIM. Crediamo che un numero inferiore porrebbe un rischio di diversificazione, un numero maggiore diluirebbe le nostre scelte.
Per lo stockpicking sono fondamentali un’analisi molto approfondita di ogni società e una forte conoscenza del management, che incontriamo ogni volta che pensiamo di investire su un titolo. Questo è essenziale, la società deve essere ben gestita e avere forti prospettive di crescita e livelli di profittabilità corrente o prospettica importanti. La combinazione di profittabilità e crescita rappresenta il driver delle nostre scelte.
Ma la strategia di value investing, su cui vi basate, non si focalizza in particolare sulla sottovalutazione del titolo?
C’è spesso un equivoco di fondo sul value investing. Un basso p/e non può mai essere l’unico elemento su cui si fonda una scelta di stockpicking, perché una tale valutazione può essere giustificata, se la società non cresce o non fa utili. Se ci si focalizza solo sul p/e si rischia di perdere soldi.
Il punto è prima di tutto fare una valutazione della società, con un cash flow discount model che proietta gli utili e altri indicatori di bilancio nel tempo, vedere che è una società solida che crescerà e farà utili, e assicurarsi che la valutazione è molto più alta del prezzo di mercato: non del 10 o del 20%, ma del 50 o del 100%. Ovviamente questo non è un metodo che può basarsi su considerazioni di breve periodo, per questo noi siamo investitori di lungo termine.
Il value investing è un metodo appropriato per fasi difficili come questa? Il suo fondo ad aprile è riuscito a ottenere una performance positiva in un momento ancora complicato…
Anche a maggio. Il value investing è una strategia vincente in ogni condizione di mercato, ma certamente quando ci sono correzioni si manifestano le occasioni per aumentare gradualmente l’esposizione a società già interessanti. A marzo, quando tutto scendeva, grazie anche al fatto che ci sono arrivate nuove sottoscrizioni ne abbiamo approfittato per aumentare le posizioni su alcuni titoli AIM, aziende interessanti e flessibili che infatti stanno reagendo molto bene alla crisi. E infatti ad aprile il fondo è risalito del 12%.
Analogamente, quando un titolo sale molto noi ne approfittiamo per prendere un po’ di profitto e reinvestire un po’ su titoli che sono andati un po’ peggio.
Quindi la vostra ricetta è tenere gli stessi titoli, ma riducendo e aumentando le esposizioni?
Una dose di turnover ovviamente c’è, ma tendenzialmente cerchiamo di mantenere stabili i pesi delle aziende in portafoglio, con una prospettiva di lungo termine. Se il valore sale riduciamo un po’ vendendo, se scende compriamo un po’, e in questo modo facciamo anche da calmieratori di prezzo. Con questa strategia, abbiamo una volatilità bassissima nel nostro portafoglio. Quando a marzo il mercato è crollato abbiamo provato a proteggere il portafoglio con degli strumenti di hedging, ma abbiamo visto che la copertura aveva una volatilità molto alta. E allora l’abbiamo chiusa, visto che comunque i nostri titoli tenevano: quando il 12 marzo il mercato è sceso del 17%, il nostro portafoglio ha perso solo l’8%.
La sovraperformance del 10% è legata alla natura degli investitori e alle loro logiche. Lambiase (IrTop): "Chi punta su Aim lo fa a lungo termine. Vincono tech e digital. Gli imprenditori ripartano da qui"