Roubini afferma che “attualmente, la zona euro si trova già in una recessione tecnica, visto che c’è stata una diminuzione del Pil nel quarto trimestre del 2022 e nel primo del 2023, e con l’inflazione ancora saldamente al di sopra del target (nonostante il recente calo)”. Il Regno Unito non è in recessione ma in compenso è attanagliato da un rallentamento molto accentuato, e l’inflazione rimane ostinatamente molto alta, al di sopra della media Ocse.
Dall’altra parte dell’Oceano, gli Stati Uniti hanno subito un brusco rallentamento nel primo trimestre, mentre l’inflazione di base (escludendo i prezzi alimentari ed energetici) è rimasta alta. E in Cina il recupero post-Covid sembra essersi fermato, mettendo in discussione il pur modesto (per gli standard cinesi) obiettivo di crescita del 5% fissato dal governo per il 2023. Non se la cavano molto meglio altre economie emergenti e di frontiera, che a eccezione dell’India stanno registrando una crescita relativamente debole rispetto al loro potenziale, e che in molti casi sono ancora alle prese con un’inflazione molto alta.
Il rebus inflazione
Il problema, sottolinea Roubini, è che l’inflazione si sta dimostrando una bestia piuttosto difficile da domare. Nonostante il calo, restano alcune dinamiche – come le pressioni salariali – che hanno contribuito alla persistenza del fenomeno inflativo. Tutto questo, osserva l’economista, ha complicato la vita alle banche centrali, che “hanno avuto difficoltà a rispettare il proprio mandato sulla stabilità dei prezzi”.
Le aspettative di mercato che le banche centrali avrebbero terminato gli aumenti dei tassi di interesse e addirittura iniziato a ridurli nella seconda metà del 2023 sono state deluse, prosegue Roubini. La Fed, la Bce, la Bank of England e la maggior parte delle altre banche centrali di rilievo “dovranno aumentare i tassi ancora prima di poterli mettere in pausa”, aggiunge. Man mano che ciò accade, il rallentamento economico diventerà più persistente, aumentando il rischio di una contrazione economica e nuovi stress sul debito e sul sistema bancario.
Ci sono anche spunti positivi, perché il rischio di una grave stretta creditizia è diminuito rispetto alla fase in cui si erano susseguiti diversi fallimenti bancari a marzo, e alcuni prezzi delle materie prime si sono abbassati (in parte a causa delle aspettative di una recessione, chiosa Dr Doom), contribuendo a contenere l’inflazione dei beni. Il rischio di un hard landing quindi sembra oggi meno elevato. Ma le condizioni non sono nemmeno troppo favorevoli, quindi secondo Roubini lo scenario più probabile è il secondo: con una crescita salariale e un’inflazione di base persistentemente elevate, che costringono le banche centrali ad aumentare ulteriormente i tassi di interesse, diventa molto più probabile una breve e superficiale recessione nel prossimo anno. Una situazione che potrebbe ulteriormente erodere il sentiment dei consumatori e delle imprese, creando le condizioni per una crisi più grave e prolungata e aumentando il rischio di stress finanziario e creditizio. Di fronte alla possibilità che il secondo scenario evolva verso il terzo, le banche centrali potrebbero esitare e permettere all’inflazione di rimanere ben al di sopra del 2%, piuttosto che rischiare di innescare una grave crisi economica e finanziaria.