Trade war e frenata tedesca: meglio ridurre il rischio di portafoglio
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Il protezionismo è stato uno dei principali fattori che hanno pesato sull’attività globale negli ultimi 18 mesi e una guerra tariffaria generalizzata rimane la principale fonte di rischio per il futuro. Le tensioni Usa-Cina sono al centro di questa ondata protezionistica e il cammino verso un accordo commerciale tra i due Paesi non è più chiaro ora di quanto non lo fosse al momento dello scoppio della guerra commerciale l’anno scorso. Nel frattempo, il protezionismo commerciale si è ampliato. L’Unione europea ha uno degli avanzi delle partite correnti più alti al mondo, elemento che ha attirato l’attenzione di Washington. Recentemente, gli Stati Uniti hanno minacciato di imporre tariffe più elevate su circa 8 miliardi di dollari di importazioni, accusando i sussidi di Airbus. Tuttavia questa mossa risulterebbe simbolica, se paragonata al rischio di dazi automobilistici che gli Stati Uniti potrebbero decidere di imporre se le negoziazioni con l’Ue previste per la fine dell’anno dovessero fallire.
A fare il quadro della situazione è Silvia Dall’Angelo, senior economist di Hermes Investment Management, secondo cui al di là delle attuali tensioni crescenti, vi sono anche alcuni trend di lungo periodo che illustrano come si stia riconfigurando il commercio mondiale. “In un certo senso, l’attuale ondata protezionistica sta semplicemente rinvigorendo lo spirito anti-trade in vita da decenni – osserva -. Se da un lato una maggiore apertura commerciale ha prodotto un effetto netto positivo sull’economia globale, dall’altro è innegabile che la globalizzazione abbia creato vincitori e vinti. Dalla metà degli anni ’80, il divario tra i mercati sviluppati e quelli emergenti si è notevolmente ridotto, ma le disuguaglianze all’interno dei Paesi, in particolare nelle economie avanzate, si sono ampliate”.
La Dall’Angelo spiega infatti che la ritirata del commercio transfrontaliero è precedente alla recente ondata protezionistica, cosa che suggerisce come vi siano altri fattori in gioco. “La crescita del volume degli scambi commerciali ha subito un forte rallentamento a partire dal 2012, in relazione sia ai risultati storici sia all’espansione economica complessiva. La crescita strutturale più debole e il declino delle componenti alla base della crescita economica ad alta ‘intensità commerciale’ (come gli investimenti) contribuiscono a spiegare il fenomeno”, afferma.
Anche la tecnologia ha giocato un ruolo cruciale, secondo l’economista, con l’automazione che ha permesso il trasferimento dell’attività produttiva e la contrazione delle catene globali di valore. “La disponibilità di tecnologia automatizzata a basso costo e l’aumento del costo della manodopera straniera hanno incoraggiato le aziende negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali a iniziare a rimpatriare l’attività manifatturiera – spiega -. Uno studio ha evidenziato che un robot in più per ogni 1.000 lavoratori è associato a un aumento del 3,5% nel re-shoring”. Di conseguenza, le prospettive a lungo termine per il commercio mondiale non sono del tutto chiare. Gli Stati Uniti e la Cina appresentano oggi una forza di disturbo per il commercio globale o semplicemente un catalizzatore che accelera l’inversione della globalizzazione portando alla nascita di un nuovo, e inevitabile, equilibrio?
Per la Dall’Angelo è diventato sempre più evidente che ci stiamo spostando da un modello internazionale integrato a un altro paradigma basato su due o tre blocchi commerciali regionali, ciascuno con un proprio sistema di regolamentazione, catene di approvvigionamento più corte e un’attività transfrontaliera limitata. “L’emergere di un’economia globale ‘divaricata’ sembra sempre più probabile, dato che le tensioni Usa-Cina hanno superato ampiamente l’ambito commerciale. In effetti, i dazi sembrano un aspetto secondario rispetto alle tensioni sul fronte della tecnologia, alle preoccupazioni in materia di sicurezza e ai diversi valori culturali”, precisa.
Non è chiaro se vi sarà spazio per un terzo attore, secondo l’economista: la mancanza di coesione dell’Europa comporta il rischio per il Vecchio Continente di essere schiacciato dai due colossi che la circondano. La risposta ‘divisa’ del Vecchio Continente all’iniziativa cinese Belt and Road testimonia una mancanza di orientamento in questa fase. “In un mondo più frammentato emergono numerosi aspetti negativi – avverte -. È improbabile che il trasferimento di produzione faccia aumentare i salari dei lavoratori meno qualificati. Piuttosto, sosterrà probabilmente i redditi dei professionisti che non sono interessati dall’automazione, conducendo a una disuguaglianza di reddito ancora più evidente”.
La Dall’Angelo prevede che diversi Paesi ed aree saranno esclusi o fortemente condizionati da un nuovo ordine di fatto bipolarizzato. “L’Africa e l’America Latina potrebbero scivolare tra i blocchi commerciali, mentre le economie che esportano sia in Cina sia negli Stati Uniti dovranno fare scelte difficili. Inoltre, la cooperazione multilaterale diventerà probabilmente più difficile. La mancanza di coordinamento internazionale potrebbe compromettere l’efficacia degli sforzi per affrontare le questioni relative al cambiamento climatico e alla sostenibilità. Anche le possibilità di un conflitto militare potrebbero aumentare”, sostiene.
Per l’economista la fase di transizione comporterà inevitabilmente delle sfide. “Riteniamo tuttavia che vi potrebbero anche essere delle opportunità. Se dovesse emergere un ordine economico alternativo, gli investitori dovranno essere in grado di muoversi nel nuovo contesto e individuare le opportunità emergenti. Il nuovo ordine non sarà costruito da un giorno all’altro: è una storia a lungo termine che probabilmente si svilupperà nel corso di decenni, ma la guerra commerciale ha esacerbato le forze già in movimento e il cambiamento è certamente all’orizzonte”, conclude.