Patrimoniale? Con le previsioni del Nadef aumenta il rischio
14 ottobre 2020
di Cinzia Meoni
3,3 min
“Ma potrebbe non manifestarsi con una decurtazione sui conti correnti”, a giudizio del fiscalista Riccardo Campi. “Possiamo attenderci fino al raddoppio delle attuali imposte patrimoniali”, sostiene l’esperto
Riccardo Campi, commercialista ed esperto in ambito tributario
La pandemia e la conseguente crisi economica sta riportando d’attualità uno dei maggiori timori degli italiani degli ultimi trent’anni: l’incubo di una patrimoniale necessaria a pagare i debiti che stiamo contraendo con l’Europa. Ne parliamo con spiega Riccardo Campi, commercialista ed esperto in ambito tributario.
Lei ritiene che questo rischio possa essere concreto? E lo definirebbe attuale?
Sì. Il tema non è se ma quando, come e quanto rischiamo. Lo evidenzia lo scenario di riferimento in cui, a fronte di una economia stagnante se non decisamente in recessione, la spesa è in aumento.
L’Italia già prima della crisi del Covid aveva circa 2.300 miliardi di debito, con una durata media di sette anni, e quindi doveva piazzare ogni mese poco meno di 30 miliardi di obbligazioni sul mercato, contro un Pil di 1.800 miliardi, ovvero 150 al mese. Oggi il Nadef prevede un incremento del debito di 20 miliardi, senza neppure considerare l’impatto di un secondo eventuale lockdown, anche parziale. Tra tagli e tasse, i 20 miliardi in più di debito da ripagare in sette anni all’1% circa si traducono in 3 miliardi all’anno (6 se si raddoppia con un secondo lockdown).
In assenza di segnali di riequilibrio o di soluzioni adottate per allungare la scadenza di parte del debito, è abbastanza probabile che si manifestino nuove tensioni sui titoli di Stato italiani che renderanno difficile ricorrere a nuovo indebitamento. A queste potranno esserci solo quattro risposte: alleggerire le rate ricorrendo al Mes; tagliare la spesa; aumentare la pressione fiscale o, come ultima ratio, non pagare alcuni debiti.
Quanto rischiamo?
Le patrimoniali hanno un problema: non sempre un patrimonio è associato a un flusso immediato di liquidità. Questo accade soprattutto per il patrimonio immobiliare non destinato a locazione, ma può accadere anche per investimenti finanziari. Ne consegue che più che una patrimoniale una tantum, possiamo attenderci un incremento delle imposte patrimoniali. Ritengo in particolare che possiamo aspettarci come limite massimo un raddoppio delle imposte patrimoniali, accompagnato da rimodulazioni nelle tasse e contributi, ma più probabilmente un incremento tra il 30 e il 60% finalizzato a coprire il maggiore indebitamento da Covid.
Si consideri che nel 2015 la Commissione Ue ha commissionato uno studio sulle imposte patrimoniali a Eurostat. Nel rapporto vengono evidenziate le disparità tra distribuzione della ricchezza e tassazione della stessa in Europa, da qui è emersa l’idea di spostare parte della tassazione dai redditi di lavoro e di impresa per tassare più pesantemente patrimoni e rendite.
Statisticamente le imposte patrimoniali sono classificate come D91 (capital taxes) o come D59 (other recurrent taxes). Un confronto con i principali Paesi Ue vede l’Italia allineata alla Germania (0,7% contro lo 0,66% del Pil prelevato in imposte patrimoniali) ma circa al 50% della Francia (1,57%, tutti dati del 2018). In termini assoluti queste imposte contano attorno ai 10 miliardi di euro.
Come si può gestire al meglio il rischio di una prossima patrimoniale?
Per gestire il “rischio patrimoniale” è essenziale capire come si è già manifestata questa tipologia di imposta nel recente passato così da iniziare a prendere le misure, casomai il rischio dovesse ritornare di stretta attualità.
I “giri di vite” sulle patrimoniali sono avvenuti in due precisi momenti storici. Il primo nel 1992, quando, per reagire alla svalutazione della lira, il governo di Giuliano Amato fece ricorso a due imposte straordinarie: il prelievo sui conti correnti, e l’imposta straordinaria sugli immobili (Isi, trasformando la vecchia Invim decennale). Il secondo momento è il 2011 con le finanziarie estive di Giulio Tremonti che introdussero il “bollo” sui depositi titoli e il Decreto Salva Italia che aggravò le imposte immobiliari (in particolare l’Imu, erede dell’Isi). In entrambi i casi eravamo in presenza di una situazione di eccezionale pressione dei conti pubblici, accompagnata da un “rigetto” dei titoli di debito da parte dei mercati finanziari. Nel 1992 la Bce non esisteva, e nel 2011 gli strumenti di prevenzione dei default erano in fase di messa a punto. Al contrario in questi mesi la potenza di fuoco della Bce è stata decisiva per mitigare sensibilmente il rischio. Siamo quindi in uno scenario in cui, a differenza del passato, esistono reti di protezione a iniziare da quelle messe in atto dalla Bce. Tuttavia, neppure queste reti sono infinite: un declassamento ulteriore dei titoli italiani comporterebbe la necessità di rivedere i limiti operativi nella capacità di acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce. E le conseguenze potrebbero portare verso la necessità di imporre una stretta sulle patrimoniali.
Ad oggi, a suo giudizio, dove potrebbe cadere la scure del Fisco?
È l’imminenza del rischio che detta le regole di ingaggio. Lo strumento più semplice sarebbe un prelievo straordinario sui conti correnti. Dopo l’esperienza Amato, tuttavia, non si è più fatto ricorso per le evidenti sperequazioni e il costo politico di questa scelta. Più ragionevole una operazione di aggravio delle aliquote o delle basi imponibili sulle imposte. Ad oggi esistono in Italia già due “patrimoniali” riscosse annualmente, o meglio due per il patrimonio in Italia (Imu sugli immobili e imposta di bollo sugli investimenti mobiliari) e due per il patrimonio detenuto all’estero (rispettivamente Ivie e Ivafe). Sull’Imu pende già la spada di Damocle della riforma delle rendite catastali, che potrebbe determinare sensibili aumenti di imposta, e che avrebbe riflessi anche sulle imposte successorie.
Esiste poi una ulteriore imposta “patrimoniale” non ricorrente, che si paga al ricevimento di una donazione, o in qualità di eredi. Attualmente l’imposta è ridotta per gli eredi in linea retta e il coniuge e mitigata per i parenti entro il quarto grado, tanto che spesso l’Italia è indicata come un vero è proprio paradiso nei confronti di questa tipologia di imposta.
Più in generale quali strumenti legali ha in mano un investitore per circoscrivere il rischio di una patrimoniale, o comunque la si voglia chiamare?
Dalle varie patrimoniali sono attualmente esenti la prima casa e il patrimonio accantonato in fondi pensione e prodotti assicurativi di tipo “vita pura”. Sono strumenti che hanno forti tutele (impignorabili e insequestrabili), ma che possono essere agevolmente attratte a tassazione con piccole modifiche normative.
Una ulteriore strada ulteriore che può essere percorsa è il trasferimento di parte degli investimenti all’estero, del tutto legittimo dal 1990, con i soli obbligo di tracciabilità dei movimenti (da fare via banca) e del monitoraggio del patrimonio (Quadro RW del modello Unico).
Se per la ricchezza detenuta in Italia gli intermediari trattengono direttamente le imposte, per gli investimenti all’estero è il contribuente a dovere provvedere. Non ci sono quindi risparmi, ma normalmente si paga qualche mese dopo, in sede di dichiarazione dei redditi (così accade per Ivie e Ivafe). Ci sono però costi amministrativi da sostenere tra spese professionali e commissioni bancarie.
Cosa consiglierebbe ad oggi a un investitore italiano per arginare il rischio di una patrimoniale?
Un consiglio è di ridurre le giacenze di liquidità per mitigare i rischi estremi di prelievo; trasformare, se possibile, alcuni fondi di investimento a scopo previdenziale in fondi pensione per ridurre il rischio mantenendo le finalità. Al solito una buona differenziazione territoriale e per natura degli investimenti è una seconda importante arma di difesa. Trasferire parte del patrimonio all’estero è consigliabile per valori importanti che giustifichino i costi amministrativi.
L’Italia è un paradiso fiscale per quanto riguarda il passaggio generazionale della ricchezza patrimoniale. Ma cosa accadrebbe se aumentassero le aliquote della tassa sulla successione?
Le grandi famiglie ci hanno già pensato trasferendo i capitali, legalmente, in banche deposito oltreconfine, approfittando delle imposte sulla successione e valutando strutture societarie
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