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Il mancato accordo tra i produttori fa prevedere un rally estivo del barile e temere per l’inflazione. Ma potrebbe anche scatenare una nuova guerra dei prezzi. La view dei gestori
Il secondo fallimento in meno di una settimana dell’Opec+ mette le ali al petrolio e zavorra le Borse, che temono per l’inflazione e anche di rivivere l’incubo di una guerra dei prezzi. Intorno alle 13, il Brent raggiunge quota 77,38 dollari, mettendo a segno un ulteriore aumento sui valori toccati subito dopo la fine infruttuosa del vertice, quando ha superato i 77 dollari salendo ai massimi dal 2018. In deciso rialzo viaggia anche il Wti che guadagna l’1,7% a 76,44 dollari al barile, al top dal 2014.
Il cartello dei produttori di petrolio non è infatti riuscito a raggiungere un compromesso per aumentare la produzione ad agosto e, a differenza del precedente vertice di giovedì scorso, non ha neppure fornito un data per un eventuale prossimo incontro. A far saltare il tavolo, le rimostranze degli Emirati Arabi in merito alla baseline, cioè alla base produttiva su cui viene calcolata la quota di produzione, e alla proposta di mantenere i tagli per tutto il 2022.
Data l’impasse tra Emirati Arabi e Arabia Saudita, al momento quindi il cartello non prevede di aumentare la produzione il mese prossimo, una situazione che potrebbe spingere il greggio del Mare del Nord oltre gli 80 dollari al barile. Una prospettiva che spaventa non poco banche centrali e mercati, il cui timore è che il rialzo della prima delle materie prime spinga ulteriormente l’inflazione. Al tempo stesso, però, il mancato accordo potrebbe portare i Paesi Opec a muoversi da soli, innescando una nuova guerra dei prezzi come quella dello scorso anno che spingerebbe le quotazioni in direzione opposta.
Nonostante secondo indiscrezioni il presidente Usa, Joe Biden, sia intervenuto chiedendo con urgenza ai membri Opec+ di trovare una soluzione per aumentare la produzione, lo stallo pare per ora insanabile e potrebbe portare ad un rally estivo del barile. Tanto più che già prima che il mercato venisse a conoscenza del fallimento del tavolo, il mercato degli spread presentava una marcata tensione sul lato dell’offerta, meglio nota agli addetti al lavori come ‘backwardation’, ossia un regime di mercato in cui le consegne a breve costano di più di quelle a lungo termine.
“Una disgregazione dell’Opec sembra molto improbabile, ma avrebbe l’effetto opposto, in quanto scatenerebbe una guerra dei prezzi – sottolinea in un report il team strategie di credito globale di Algebris -. Nel caso base (aumento di 0,5 milioni di barili al giorno a partire da agosto), la pressione sulle quotazioni del greggio rimarrebbe al rialzo, poiché l’Opec non starebbe utilizzando a pieno i suoi poteri, mentre la ripresa economica continuerebbe a progredire. Una graduale riapertura potrebbe portare a una ripresa della domanda di petrolio di circa 5 milioni di barili al giorno nella seconda metà del 2021, quando invece l’Opec+ opterebbe per dei graduali aumenti fino ad arrivare a 3-3,5 milioni di barili al giorno di offerta, anche a causa di un aumento molto contenuto della produzione iraniana”.
Per gli esperti Agebris, nonostante le quotazioni sui massimi il greggio ha ancora un po’ di spazio per salire ulteriormente e gode di condizioni tecniche favorevoli nei mercati delle materie prime. “Consideriamo l’energia uno dei pochi settori in cui vediamo ancora del valore nei relativi asset e vediamo la congiuntura attuale come un’opportunità per acquisire esposizione su valute legate alle materie prime, crediti petroliferi e obbligazioni convertibili”, affermano.
Chi esulta per l’impennata dell’oro nero sono certamente i mercati emergenti. Come sottolinea Guillaume Tresca, senior emerging market strategist di Generali Investments, l’aumento del prezzo del petrolio supporta infatti la crescita globale degli Emergenti e riduce significativamente per i Paesi produttori le necessità di finanziamento dall’estero. “È difficile conoscere le ipotesi sui prezzi del petrolio che stanno alla base delle prioezioni di bilancio dei Paesi emergenti – fa notare -: in Arabia Saudita è probabile che sia intorno ai 50 dollari al barile, inferiore in Qatar. Questo scenario porta ad una revisione nettamente al ribasso delle emissioni sovrane in valuta estera a 200 miliardi di dollari Usa, poiché i titoli sovrani del Gulf Cooperation Council rappresentano in genere il 50% delle emissioni totali”.
In termini di spread, per Tresca le emissioni inferiori e i rimborsi elevati a luglio, insieme a flussi in ingresso di fondi finora resilienti, aiuteranno gli spread dei mercati emergenti prima del meeting di Jackson Hole, dal quale sono attese notizie sulla riduzione degli acquisti da parte della Fed.
“A nostro avviso – conclude quindi lo strategist -, posizioni lunghe verso i mercati del GCC nel segmento investment grade sono il modo migliore per esprimere una visione rialzista del petrolio. Sono i più sensibili ai prezzi del petrolio e, con il petrolio a 75 dollari al barile, quasi tutti i GCC dovrebbero registrare un surplus sia nella bilancia dei pagamenti che nel bilancio pubblico. Il Qatar e in misura minore l’Arabia Saudita sono a buon mercato sulla curva. Siamo invece cauti sul Kuwait, mentre nel segmento high yield dovrebbe beneficiarne l’Oman”.
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