Petrolio in (leggera) ripresa solo dalla seconda metà del 2020
Goldman boccia l'Opec: “Taglio reale di soli 4,3 mln di barili”. Prezzi bassi ancora per la prima metà del 2020. Poi State Street e MS prevedono un ritorno in area 30 dollari
4 min
L’Arabia Saudita scommette sui settori maggiormente martoriati dall’emergenza sanitaria: turismo (con un investimento da 775 milioni nella società di crociere Carnival), eventi (con il 5,7% di Live Nation), calcio (dovrebbe essere vicino a firmare l’acquisizione di Newcastle United per 320 milioni) e, soprattutto, petrolio. E, a ben vedere, sono proprio le ultime operazioni sull’oil a incuriosire maggiormente. Perché se è vero che il fondo sta esaminando “tutte le opportunità” scaturite dallo tsunami che ha investito i mercati finanziari, come ha dichiarato il governatore del fondo Yasir Al-Rumayyan, gli investimenti petroliferi non sembrano perseguire l’obiettivo della diversificazione dell’economia saudita.
Il fondo sovrano saudita (Saudi Arabia Public Investment Fund, spesso chiamato più semplicemente Public Investment Fund, o Pif) ha puntato ad aprile una fiche da un miliardo di dollari su Eni, sulla norvegese Equinor, su Royal Dutch Shell e sulla francese Total. L’arrocco è arrivato a ridosso di un momento di forte crisi dell’industria petrolifera e del gas a livello globale dovuto sia al crollo della domanda seguito all’esplosione dell’epidemia da coronavirus (solo negli Usa, da inizio del lockdown la domanda di benzina è crollata del 50%), sia per la guerra dei prezzi scattata fra i produttori (a iniziare peraltro da Arabia Saudita e Russia). Uno scenario che ha visto addirittura crollare il future con scadenza maggio 2020 sul Wti (prezzo di riferimento del greggio nordamericano) in territorio negativo per la prima volta nella storia: ovvero gli operatori sono stati disposti a pagare pur di liquidare le proprie posizioni e non vedersi recapitare fisicamente i barili di petrolio.
È quindi peculiare notare come Pif, macchina del principe Mohammed bin Salman che si propone come obiettivi strategici quello degli investimenti all’estero e della diversificazione rispetto all’industria prevalente del regno (quella petrolifera), abbia scelto proprio di investire, ancora, nell’oro nero seppure attraverso società petrolifere estere. Fino a cinque anni fa Pif si proponeva come finanziaria di partecipazioni in attività strategiche del Paese mediorientale, successivamente nel 2015 i suoi obiettivi sono stati ampliati per includere gli investimenti internazionali a supporto della diversificazione economica. Un passo utile anche in considerazione della perdita di riserve in valute straniere subita dalla Banca Centrale che, secondo le stime di Bloomberg, lo scorso febbraio poteva contare su 464 miliardi di dollari di asset esteri, il livello più basso dal 2011 sempre secondo Bloomberg.
Affari? Essenzialmente i colossi petroliferi acquistati da Pif hanno perso oltre un terzo del proprio valore di Borsa nel giro di due mesi e generano, tradizionalmente, dividendi costanti e redditizi.
Scommesse sul rialzo del prezzo del greggio? Gli esperti non sono particolarmente positivi, quanto meno nel breve termine. “Le nostre attese sul prezzo del petrolio non si discostano significativamente da quanto incorporato nei prezzi dei future su dicembre: difficile in questo contesto che i prezzi possano salire significativamente sopra i 30 dollari al barile ed esistono rischi al ribasso nel caso di ulteriori chiusure autunnali”, commenta con FocusRisparmio Fabrizio Santin, portfolio manager di Pictet Asset Management. “Prevediamo che la domanda di petrolio avrà una ripresa a U nella seconda metà di quest’anno e nel 2021”, sostiene Mobeen Tahir, associate director della Research di WisdomTree.
O la mossa di Pif non è altro che una strategia di gioco nel più ampio risiko geopolitico? Con una cassa di 320 miliardi di dollari di liquidità il raggio di azione di Pif è decisamente ampio.
A giudizio di Santin, “Il fondo sovrano sta approfittando dei prezzi da saldo delle major petrolifere per rafforzare la propria sfera di influenza. Dal punto di vista valutativo il caso è senza dubbio favorevole per il settore energy, soprattutto per quelle imprese che, in questa fase, saranno in grado di mantenere flussi di cassa positivi, politica dei dividendi relativamente stabile, investimenti (capex) accorti. Più in dettaglio per Santin la crisi del settore ricorda la situazione delle società del settore minerario che, nei primi anni dello scorso decennio, hanno dovuto fronteggiare una discesa dei prezzi delle commodities in seguito alla recessione del 2008-2009 e al boom di domanda di materie prime della Cina, trovandosi così a dover dare uno stretto giro di vite a spese correnti e a investimenti in conto capitale per adattarsi alla nuova realtà.
A giudizio invece di Tahir, da un lato Pif come tutti i fondi sovrani “può permettersi il lusso di contare su una strategia di lungo periodo” che scommetta su ripresa dei prezzi, dall’altro “beneficia dell’aspettativa che l’Arabia Saudita non permetterà al mercato petrolifero di crollare, ma svolgerà anzi un ruolo importante per riequilibrare il mercato”.