I settori e le aree geografiche preferite dai fund manager a luglio
A luglio il 21% dei gestori pensa di aumentare il peso dell’Europa in portafoglio. Il 42% ha una view rialzista sull’euro
6 min
“Opportunità di acquisto senza precedenti”. La pandemia è stata anche questo per gli investitori sovrani, che erano ampiamente preparati alla crisi Covid-19 e che con il calo delle valutazioni e l’abbondante dry powder hanno potuto appunto trasformarla in un’occasione. A rivelarlo, l’ottavo Global Sovereign Asset Management Study annuale di Invesco, che illustra le convinzioni di 139 chief investment officers, responsabili di asset class e senior portfolio strategist di 83 fondi sovrani e 56 banche centrali, per un totale di 19 trilioni di dollari Usa di asset gestiti.
Dalla ricerca emerge che la maggior parte degli investitori sovrani, in quanto depositari di capitali a lungo termine, ha anche beneficiato della mancanza della necessità di vendere per far fronte ai rimborsi. I fondi sovrani si sono inoltre dimostrati più preparati grazie alle lezioni imparate dalla crisi finanziaria globale e ai cambiamenti attuati, quali la costituzione di consistenti riserve di liquidità e l’attuazione di miglioramenti organizzativi per la gestione della liquidità. Prima che il Covid-19 investisse i mercati, le allocazioni azionarie medie degli investitori sovrani alla fine del 2019 erano giunte al livello più basso dal 2013 sia in rapporto alle obbligazioni che in percentuale totale dell’asset allocation: 26% vs 34%. L’allontanamento dall’azionario è stato motivato in parte dalle preoccupazioni per la fine del ciclo che hanno determinato una riduzione delle allocazioni strategiche. Il 37% dei fondi sovrani mira a diminuire le allocazioni azionarie e la metà di essi intende farlo in misura superiore al 5%. Solo il 22% punta ad aumentarle nei prossimi 12 mesi e quelli che lo fanno intendono procedere con cautela.
Cresce invece l’attenzione per le obbligazioni e gli strumenti alternativi, in particolare le infrastrutture. Nei prossimi 12 mesi i fondi sovrani prevedono di continuare le allocazioni all’obbligazionario; il 43% mira ad aumentare le allocazioni alle obbligazioni, il 43% a private equity e infrastrutture e il 38% all’immobiliare. “L’obbligazionario è tradizionalmente considerato un segmento difensivo e tale concetto è stato messo alla prova dalla crisi, dato che anche il debito sovrano Usa è stato coinvolto nella generale flessione a fronte della fuga degli investitori verso la liquidità – spiega Rod Ringrow, head of official institutions di Invesco -. Tuttavia, gli interventi governativi come tagli dei tassi e quantitative easing globali hanno compresso i rendimenti, esercitando un impatto positivo su numerosi portafogli obbligazionari”.
Il Covid-19 ha inoltre accelerato gli esistenti trend verso i progetti infrastrutturali, creando potenziali opportunità distressed. Molti investitori hanno ritenuto che gli investimenti infrastrutturali fossero costosi a causa dell’abbondanza di capitali volti ad un numero relativamente ridotto di operazioni. Alcuni hanno tuttavia considerato l’attuale situazione come un’opportunità per sfruttare la vendita in determinati sottosettori come gli aeroporti. Nell’ambito dell’asset class delle infrastrutture, i fondi sovrani riportano il massimo livello di interesse per generazione e trasmissione di elettricità (54%) e comunicazioni (52%).
“I progetti infrastrutturali, in particolare quelli di generazione e trasmissione che favoriscono la transizione dei Paesi dai combustibili fossili, sono stati considerati strumenti per conseguire gli obiettivi Esg, – chiarisce Ringrow -; tuttavia, anche molti fondi pensione seguono questo tema e l’individuazione degli investimenti appropriati può quindi rappresentare un problema per alcuni fondi sovrani di medie dimensioni e quelli che hanno iniziato da poco a muoversi nell’asset class”
Lo studio di quest’anno mostra anche un aumento delle allocazioni all’oro da parte di banche centrali e di un piccolo ma significativo gruppo di fondi sovrani. Il 4,8% dei portafogli delle riserve totali delle banche centrali è ora mediamente allocato all’oro, in rialzo dal 4,2% del 2019 e quasi la metà (48%) di coloro che hanno incrementato le allocazioni l’ha fatto nell’ottica di sostituire il debito a rendimenti negativi. Questa è stata la ragione più importante del passaggio all’oro, decisamente superiore alle consuete motivazioni quali diversificazione, rendimento e il suo ruolo quale protezione dall’inflazione. Sebbene le banche centrali spesso accostino l’oro a un’allocazione preesistente, la posizione iniziale per i fondi sovrani è raramente la stessa. Molti fondi sovrani considerano l’oro come una notevole protezione da inflazione e tail risk, con correlazioni positive in scenari di propensione al rischio, ma con correlazioni scarse/negative nelle fasi di avversione al rischio.
Quattro quinti delle banche centrali che scelgono di aumentare le allocazioni all’oro finanziano tale passaggio attingendo a esistenti asset in usd, in misura significativamente maggiore rispetto a quelli in eur e gbp. Ciò evidenzia un importante problema cui si sono trovate dinanzi: come diversificare e ridurre le posizioni in dollari Usa senza sacrificare liquidità e convertibilità. Tale trend è emerso in modo particolarmente chiaro tra le banche dei mercati emergenti, dove quasi il 90% ha attinto alle allocazioni in dollari Usa per incrementare le riserve auree. I fondi sovrani che investono in oro hanno invece svariate opzioni. Se da un lato alcuni utilizzano ancora l’oro fisico, dall’altro considerano approcci più flessibili. I futures sono usati dal 40% degli investitori sovrani in oro: gli intervistati sottolineano la flessibilità e i rendimenti conseguibili mediante un’attenta negoziazione. Al contempo, il 40% degli enti sovrani che investe in oro acquisisce l’esposizione mediante Etf su oro. Questi veicoli hanno registrato una crescita significativa negli ultimi anni, che ha raggiunto l’80% solo nello scorso anno.
Gli Etf sono un’opzione anche per le banche centrali. Per quelle che intendono ampliare l’esposizione senza incrementare notevolmente le partecipazioni nazionali, o assumersi il rischio di credito di una bullion bank, questi strumenti sono destinati a dimostrarsi sempre più interessanti. Inoltre, in considerazione delle potenziali problematiche politiche della negoziazione dell’oro, gli Etf possono offrire uno strumento politicamente più accettabile per negoziare l’asset class. “Lo studio dello scorso anno aveva riscontrato una crescente popolarità dell’oro, ma il Covid-19 ha rivelato che è un’asset class che ora rivendica un nuovo ruolo all’interno dei portafogli sovrani – osserva Ringrow-. Abbiamo inoltre rilevato che l’oro fisico non risponde a tutte le esigenze di liquidità, inducendo banche centrali e fondi sovrani a esaminare attentamente gli Etf sull’oro e riteniamo che lo sviluppo di queste modalità alternative di investimento sia destinato ad accrescere l’interesse per l’oro nei prossimi anni.”
Dalla ricerca emerge poi che l’83% delle banche sovrane e dei fondi sovrani ritiene per fronteggiare il cambiamento climatico sia necessaria un’azione immediata e ciò si traduce in strategie d’investimento sempre più attente a incorporare il rischio climatico nel processo d’investimento generale. La singola maggiore preoccupazione a livello globale è il numero crescente di disastri naturali. Gli investitori tendono a preoccuparsi per i rischi che li minacciano direttamente e le posizioni differiscono quindi in misura significativa da una regione all’altra.
Gli investitori occidentali sono i più consapevoli della transizione verso un’economia a basso contenuto di carbonio, dato il numero elevato che detiene esposizioni significative al settore metalli e attività estrattive e ai sottosettori petrolio e gas integrati e prospezione di petrolio. L’88% degli investitori asiatici e il 75% di quelli dei mercati emergenti, ossia una percentuale di gran lunga maggiore del 33% degli investitori occidentali, si ritengono colpiti in modo sproporzionato dal cambiamento climatico. La loro maggiore preoccupazione è che il cambiamento climatico possa causare problemi di natura commerciale, in quanto tali regioni dipendono in misura maggiore da un livello robusto di liberi scambi per supportare i rispettivi settori delle esportazioni agricole, che potrebbero risentire delle temperature anomale.
Gli intervistati hanno dichiarato che sebbene la regolamentazione offra alle aziende linee guida chiare, spesso gli investitori non possono contare su direttive attuabili. Alcune banche centrali stanno affrontando il problema ma molte sostengono che, per incrementare l’engagement, sia necessario ristrutturare mandati e politiche affinché i rischi di cambiamento climatico siano presi in considerazione, in quanto varie banche sono costituzionalmente impossibilitate a farlo.
Linee guida più chiare sono necessarie anche per i fondi sovrani. Gli intervistati hanno risposto che i funzionari pubblici devono chiarire le definizioni, delineare i metodi di adozione e definire i parametri relativi agli obiettivi delle emissioni di carbonio per i loro portafogli. “Siamo lieti di vedere che i fondi sovrani e le banche centrali continuano a integrare le tematiche climatiche nelle loro decisioni d’investimento e a sviluppare le capacità di rilevare e attenuare i rischi climatici. Per procedere, sarà necessaria una maggiore consapevolezza di decisori politici e altri investitori che, in combinazione con nuove soluzioni creative possa convincere altri investitori a considerare i rischi climatici con maggiore attenzione”, conclude Ringrow.