Il 19 ottobre del 1987 Wall Street perse oltre il 20%, il maggiore calo giornaliero della storia. Un crollo che ancora oggi si fa fatica a spiegare. E in cui il panico giocò un ruolo fondamentale, spiega Benetti di Gam
Carlo Benetti, market specialist di Gam (Italia) Sgr
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“È la fine del mondo. È la fine del toro”. Con queste parole Hugh Johnson, all’epoca uno dei guru di Wall Street, descrisse l’ecatombe che si produsse sulla Borsa Usa, e a cascata su tutte le piazze mondiali, il 19 ottobre del 1987, quando S&P 500 e Dow Jones lasciarono sul terreno oltre il 20% del proprio valore. L’indomani, il panico contagiò le piazze di tutto il mondo.
“Ancora oggi, quello del 19 ottobre resta il crollo giornaliero maggiore della storia della Borsa americana. Superiore ai crolli del ’29, superiore ai crolli visti nel 2008”, spiega Carlo Benetti, market specialist di Gam (Italia) Sgr e grande esperto di storia dei mercati. Un record storico, e che dovrebbe restare tale: perché, come spiega Benetti, “dopo quel giorno, in virtù del coinvolgimento del fattore tecnologico, che aveva giocato un ruolo nei cali, i sistemi sono stati adeguati e le autorità regolamentari hanno imposto degli automatismi che in caso di crash frenano e mettono fine alle contrattazioni”.
Ma cosa era successo davvero quel giorno, quali sono le ragioni dietro il crollo giornaliero peggiore della storia? Le possibili cause costituiscono una lista piuttosto lunga: rileggendo le cronache di quei giorni, all’epoca si parlò di tensione sui tassi, di crisi della bilancia commerciale americana, di modifiche fiscali che impattavano sui benefici delle fusioni e dei leveraged-buyout. E, come accennato, anche delle responsabilità della tecnologia, in particolare dei software di trading impostati su una strategia di assicurazione del portafoglio, che iniziarono a vendere azioni una volta toccati determinati target di perdita; e dei sistemi di trading, relativamente nuovi, che fecero fatica a gestire la massiccia mole di ordini arrivata in risposta al panico. Ci fu anche una commissione di inchiesta, dell’allora amministrazione Reagan, che concluse che il crollo era dovuto alle richieste di redemption dei fondi comuni e all’utilizzo dei software di portfolio insurance già citati.
Ma, nonostante queste congetture “a distanza di oltre 30 anni non si conoscono ancora i motivi precisi del crollo, cui non è stata data una risposta univoca”, sottolinea Benetti. “Su questo punto, personalmente mi sento molto vicino alla spiegazione che è stata data dal premio Nobel Robert Shiller”. L’economista premio Nobel dissente dalle conclusioni date dalla commissione d’inchiesta voluta da Reagan. All’epoca il giovane Shiller, racconta Benetti, mandò oltre 3mila fax a operatori e professionisti del mercato, ottenendo un migliaio di risposte.
Dalle risposte, argomenta Shiller, si evinceva che i sistemi di protezione dei portafogli potevano aver giocato un ruolo nell’accelerare le perdite una volta che il mercato aveva iniziato a crollare, ma che comunque tali sistemi erano già stati usati prima senza conseguenze e non potevano essere i soli o principali responsabili di un terremoto di tale magnitudo.
La deduzione di Shiller, quindi, “è che si sia trattato di un crash per ragioni emotive. Sui mercati serpeggiava un forte nervosismo perché gli indici avevano raggiunto livelli elevati e si temeva un crollo delle quotazioni. Dominava una potente narrativa che il mercato potesse cedere, sicché sulle prime operazioni negative viste a inizio giornata si è scatenata la corsa verso ‘l’uscita di sicurezza’”, commenta Benetti. È bastato poco, alcuni segni negativi per dare il via alle vendite massicce, e poi gli strumenti tecnologici hanno amplificato il movimento, prosegue l’esperto.
Ma va sottolineata una cosa importante: il movimento ribassista venne riassorbito nel giro di poco. “Se guardiamo il grafico, vediamo che il 19 ottobre, che allora sembrò una tragedia, è un dentino impercettibile”, aggiunge Benetti. Il mercato ha continuato a salire, a ulteriore testimonianza del fatto che non esistevano delle ragioni fondamentali solide alla base del crollo del lunedì nero del 1987. E questo porta a una serie di considerazioni.
“La prima lezione da trarre è che nel lungo periodo le azioni restano la classe di attivo da tenere nel portafoglio. David Swensen, leggendario gestore della fondazione Yale scomparso recentemente, una leggenda nella letteratura della gestione dei patrimoni per il track record imponente e il metodo esemplare, quando gli indici crollarono chiese al board di Yale il permesso di liquidare le obbligazioni e comprare azioni. il board accettò con grande riluttanza, ma gli sviluppi successivi hanno dato ragione a Swensen”, ricorda Benetti.
La seconda lezione da trarre è che, anche “se un evento di tale portata non potrà mai più ripetersi perché ci sono dei meccanismi che lo impediscono, le dinamiche che portarono a quel crollo potrebbero ripresentarsi. Se allora la Borsa crollò senza alcun motivo fondamentale, oggi siamo al crocevia di una serie di cambiamenti concentrati nello stesso momento: l’inflazione, che torna dopo anni, e che ancora non sappiamo se rappresenti un cambio di regime; il cambio di paradigma della politica in Cina; la transizione energetica”, osserva Benetti.
Siamo, insomma, più fragili ora di allora, anche se protetti da un sistema di regole che impedirà ai mercati di farsi troppo male. E se i sistemi sono cambiati, il panico, come reazione umana, è sempre in agguato. In questo senso, è importante la consulenza. “È fondamentale avere accanto qualcuno con la mente fredda con cui confrontare le proprie emozioni, ed evitare così conseguenze dolorose. Perché se il lunedì nero ci insegna qualcosa – conclude Benetti – è che nel lungo periodo i capitali pazienti vengono sempre premiati, e chi non si lascia prendere dal panico vince”.
Gli esperti sottolineano che l'evento ha segnato l'inizio della collaborazione tra le banche centrali e i governi, che sarebbe diventata una caratteristica distintiva dei 20 anni successivi
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