Gli eredi di Warren Buffett? Coetanei e boomer che muovono i mercati
I guru di Wall Street alla prova dei social: gli influencer della finanza sono banchieri e strategist, in gran parte uomini. Con una sola eccezione: la stella di Cathie Wood
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Era un investitore value, come Warren Buffet, ma con un approccio assai diverso in molti sensi, un genio della finanza passato improvvisamente alla gestione di portafoglio; ma non a Wall Street, dove con le sue capacità avrebbe potuto costruire una fortuna, ma presso un’istituzione multicentenaria come l’università di Yale, per la quale ha gestito il patrimonio dal 1985 in poi. Parliamo di David Swensen, un nome forse non noto al grande pubblico ma comunque leggendario nel mondo del portfolio management per il successo del “modello Yale” da lui creato.
Swensen, classe 1954, è stato il chief investment officer di Yale dal 1985 fino alla sua morte, avvenuta a maggio scorso. Prima di assumere questo ruolo, aveva già manifestato le sue capacità in un bruciante avvio di carriera a Wall Street: prima per la Salomon Brothers, in cui ideò il primo swap valutario per la Ibm, e poi per Lehman Brothers, di cui fu senior vice president. Fu il premio Nobel James Tobin, di cui Swensen era stato allievo di dottorato proprio a Yale, a proporlo per la gestione del patrimonio dell’università. Un deciso cambio di passo: dagli swap finanziari alla gestione di un patrimonio destinato a finanziare borse di studio per gli studenti meritevoli. E con una notevole riduzione di stipendio, raccontano le cronache, che parlano di un taglio dell’80% rispetto alla remunerazione precedente.
Ma anche se il passaggio da Wall Street a Yale può sembrare un passo indietro, in realtà i risultati ottenuti da Swensen per la prestigiosa università della Ivy League sono quelli che lo hanno reso una figura leggendaria nel portfolio management: inventò il cosiddetto Yale Model applicando un approccio allora rivoluzionario per la gestione dei patrimoni universitari, fino ad allora ancorati al modello 60-40, con esposizione esclusivamente domestica. E fece proseliti non solo tra gli altri gestori delle grandi università, ma anche tra quelli di Wall Street. Sotto la guida di Swensen, il patrimonio di Yale prosperò: nel 1985, valeva un miliardo di dollari; l’anno scorso valeva 32 miliardi. Dal 1985 al 2005, i rendimenti annualizzati erano stati del 16,1%.
“A differenza di Buffett, secondo il quale la diversificazione è l’alibi degli ignoranti, Swensen ha sempre creduto nella diversificazione”, spiega Carlo Benetti, market specialist di Gam (Italia) Sgr, sottolineando che, per il Cio di Yale, l’idea centrale era di ottimizzare il profilo di rischio del portafoglio con il bilanciamento di classi di attivo tra loro diverse e in grado di reagire in modo diverso alle variabili di mercato e offrire quindi ritorni differenti. Anche per questo motivo, Swensen riuscì ad evitare l’home bias, e a emanciparsi dal modello di investimento focalizzato solo su asset statunitensi. La filosofia di investimento prevedeva un’allocazione di ampio respiro, tra asset class diverse e titoli domestici ed esteri e strumenti non convenzionali come hedge fund, private equity, venture capital.
“L’esposizione al mercato domestico passò da oltre tre quarti a meno di un decimo, la diversificazione geografica venne estesa ai mercati emergenti e, soprattutto, venne aumentata la componente delle asset class alternative, la loro minore liquidità è più che ripagata dalle maggiori attese di rendimento nel lungo termine”, dice Benetti. Swensen infatti sottolineava che “per loro stessa natura gli asset alternativi tendono a essere prezzati in maniera meno efficiente” e “in questo modo offrono al gestore attivo l’opportunità di approfittare delle inefficienze del mercato”.
Questo è il primo elemento che distingue l’approccio di Swensen da quello di Buffett, convinto al contrario dell’opportunità di acquistare grandi pacchetti di pochi titoli che si conoscono bene. Se Buffett è un teorico dello stock picking, Swensen lo era dell’asset allocation. Un aspetto di “diversificazione spaziale”, con cui oggi abbiamo tutti più o meno una discreta familiarità.
Il secondo aspetto importante dell’approccio di Swensen, sottolinea Benetti, e meno ovvio, riguarda invece “la diversificazione temporale. Arrivato a Yale, Swensen smontò quel portafoglio da un miliardo diversificando tra diverse classi di attivo, anche illiquide. Sulla base del concetto che l’endowement deve durare nel tempo, e la prospettiva temporale di un’istituzione come Yale è necessariamente di lungo periodo. Quindi adottò un concetto meno familiare, quello di diversificazione nel tempo per obiettivi”. Il lungo orizzonte temporale della fondazione Yale è “particolarmente adatto per approfittare di mercati illiquidi e inefficienti come il venture capital, i leveraged buyouts, le materie prime e il real estate”, diceva Swensen.
Il terzo aspetto importante della filosofia del leggendario Cio di Yale “è contenuto nel suo secondo libro (Unconventional Success: A Fundamental Approach to Personal Investment) ed è dedicato agli investitori retail: in mercati complessi, dominati da strumenti complessi, è da pazzi pensare di farcela da soli, ma bisogna confrontarsi con gli esperti”, aggiunge Benetti.
Sulla base delle considerazioni appena espresse, non si può negare che la filosofia di Swensen offra diverse lezioni utili per il contesto attuale. A partire dalla considerazione degli asset illiquidi, che oggi stanno acquistando un’importanza crescente, spostando le strategie delle Sgr verso classi di attivo un tempo riservate a una nicchia di investitori. Il nocciolo del suo approccio può essere sintetizzato in un’ampia diversificazione, controllo del rischio ed elogio della pazienza, osserva Benetti. Perché la gestione di un portafoglio “non è uno sprint, ma una gara di resistenza”, sottolinea Benetti.
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