Un quadro geopolitico complesso e l’emergere di distorsioni e debolezze strutturali imporrebbero una strategia dirompente per rimettere il Paese al centro della crescita globale. Ma Pechino non sembra attrezzata per rispondere alle sfide
Per oltre un decennio, siamo stati abituati a pensare di vivere nel “secolo cinese”, dominato cioè dalla Cina come Paese in inarrestabile ascesa sullo scacchiere geopolitico ed economico, e destinato ad assumere un “soft power” analogo a quello un tempo vantato dagli Stati Uniti. Eppure, forse gli analisti sono stati vittima di un abbaglio collettivo, perché gli ultimi sviluppi sembrerebbero suggerire che la Cina nei prossimi anni non sarà meno centrale nella crescita globale e, di conseguenza, negli equilibri geopolitici del pianeta.
A sostenerlo è Mohamed El-Erian, ex co-Ceo di Pimco e oggi presidente del Queens’ College di Cambridge e chief economic advisor di Allianz, in un op-ed sul Financial Times.
“Gli economisti e gli analisti di Wall Street – sostiene El-Erian – sono rimasti delusi dalle prestazioni economiche della Cina, nutrendo la speranza che ciò possa spingere il governo a un sforzo di stimolo simile a quello visto nel 2008”. Se Pechino prendesse questa strada, potrebbe ridiventare un motore chiave dell’espansione globale, ma secondo l’economista lo scenario più probabile è che la crescita cinese continuerà a essere debole.
“Le sconfortanti performance economiche della Cina fino ad ora nel 2023 possono essere attribuite a due fattori principali: una ripresa deludente a seguito dell’allentamento delle rigorose restrizioni legate alla politica ‘Zero Covid’ e sfide di crescita più persistenti e strutturali”. Questo secondo fronte, spiega l’esperto, paga lo scotto di una strategia forse non troppo lungimirante, eccessivamente sbilanciata sul settore immobiliare, con forti livelli di indebitamento a livello locale e imprese a controllo statale inefficienti, con produzione industriale di bassa qualità. Quando sono sopraggiunti fattori di disturbo di vario genere, come le tensioni geopolitiche attuali e la diminuzione degli investimenti dall’estero, i punti di debolezza sono emersi con prepotenza.
Un quadro del genere è complesso da gestire, e oggi molto si interrogano sulla capacità dei vertici politici di imprimere la giusta direzione al Paese ridefinendo le strategie economiche. Timori che non lasciano indifferenti gli investitori esteri, impensieriti anche da una spirale deflazionistica in stile giapponese, preoccupantemente suggerita dalla discesa dei prezzi al consumo e dei prezzi di produzione.
El-Erian riconosce che “le autorità cinesi hanno annunciato nelle ultime settimane una serie di piccole misure monetarie, fiscali e regolamentarivolte a stimolare l’economia e i mercati”. Tuttavia, obietta, “queste misure sono state finora percepite correttamente come frammentarie e prive di convinzione”. Sebbene alcuni osservatori siano ancora convinti che alla fine tutte queste piccole misure “si accumuleranno in una massa critica di impatto”, questa visione potrebbe rivelarsi eccessivamente ottimistica.
La Cina, infatti, non sta solo affrontando delle sfide di crescita, ma anche “significativi problemi finanziari, compresi focolai di elevato indebitamento che potrebbero facilmente trasformarsi in rischi sistemici”. Un quadro che renderebbe inutili le normali iniziative di stimolo, soprattutto alla luce di una crescente sfiducia della popolazione. La crisi immobiliare rende le famiglie più caute nelle spese, le preoccupazioni per la disoccupazione giovanile persistono e la decisione di interrompere la pubblicazione di questi dati ha ulteriormente alimentato l’insicurezza. Inoltre, il decoupling economico e finanziario tra Cina e Stati Uniti è destinato a indebolire il commercio con l’estero, e a ridurre l’importazione di input industriali cruciali. Una dinamica che è destinata ad allontanare ulteriormente gli investitori, innescando un circolo vizioso difficile da invertire.
Di fronte a uno scenario del genere, diventa essenziale interpretare la volontà delle autorità cinesi di cambiare rotta. Ma purtroppo “un’attenta analisi delle dichiarazioni della leadership fa emergere preoccupazioni che una forte dipendenza dalle misure di stimolo tradizionali potrebbe mettere a rischio la capacità della Cina di sfuggire alla trappola comune dello sviluppo, che la costringerebbe a rimanere intrappolata nei livelli di reddito medio”. Uno scenario già visto in molti Paesi in via di sviluppo.
Quel che sarebbe necessario, cioè una strategia dirompente che acceleri la transizione verso nuovi settori di crescita e di fatto comporti l’adozione di un nuovo modello economico, richiede tempo, volontà e “distruzioni creative”. Senza contare che la necessità di intervenire per la riduzione deldebito potrebbe deprimere ulteriormente i già deludenti dati di crescita. Secondo El-Erian, “è probabile che le performance economiche rimangano deludenti per il resto del 2023 e la prima metà del 2024”. E, guardando oltre, il quadro non appare più rassicurante, anzi.
L’impressione è che Pechino non sia attrezzata per rispondere alle sfide di questi tempi complessi. Occorrerebbe superare l’inclinazione verso la centralizzazione, e canalizzare in modo corretto gli impegni su nuovi settori. “Contrariamente a quanto molti potrebbero continuare a dirvi – conclude El-Erian – non è più scontato che la Cina diventerà alla fine la più grande economia del mondo”.
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