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Studio Mediobanca, Liuc e Aifi: a due anni dall’ingresso degli operatori di Pe sale anche l’occupazione. E il ricorso alla leva finanziaria resta sostenibile. In aumento gli stranieri
Con il private equity le imprese imboccano una decisa traiettoria di crescita. Questi fondi, infatti, si rivelano un partner strategico capace di apportare alle aziende di medie dimensioni non solo risorse finanziarie, ma anche competenze manageriali e una rete di relazioni. La fotografia arriva da uno studio condotto da Mediobanca, LIUC e AIFI, che ha analizzato vent’anni di dati relativi agli interventi sulle mid cap italiane, mostrando come questi investitori abbiano inciso sul loro sviluppo. Il quadro che emerge è quello di operatori (sempre più stranieri) capaci di accelerare la sviluppo, professionalizzare la governance e aprire le imprese al mercato globale, senza snaturarne l’identità.
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Fatturato e occupazione in crescita
Lo studio ‘Private equity e mid cap: vent’anni di storia’ ha passato al setaccio i dati di 319 medie imprese manifatturiere a controllo italiano nelle quali hanno fatto ingresso fondi di Pe e altri investitori finanziari dal 2001 al 2021. Ebbene: nel biennio successivo all’ingresso, il fatturato ha riportato un aumento medio cumulato del 25%, contro il +9,2% delle aziende simili non investite. In crescita anche il numero di dipendenti: +17,6% rispetto al +1,3% delle imprese analoghe dove il private equity non è arrivato. Bene anche il totale attivo che, grazie a importanti campagne di investimenti, ha registrato una decisa espansione: +81,9% nel biennio rispetto al +13,8%.
La mappa degli investimenti
Secondo l’indagine, l’82,1% delle operazioni ha visto l’intervento di fondi chiusi di private equity, mentre nel 9,4% dei casi si è trattato di una holding di investimento. La parte restante ha coinvolto operatori di diversa natura, tra i quali club deal e family office. Quanto alla tipologia di operazione, nel 62% dei casi si è trattato di buy-out, nel 31% di interventi di expansion, mentre la restante casistica è divisa tra il 4% dei replacement e il 3% dei turnaround. Passando alla causale dell’investimento (origination), nell’89% dei casi si è trattato di un ingresso diretto nel capitale di imprese private per lo più familiari, nel 7% si è perfezionata la cessione di rami d’azienda, mentre si è fermata al 4% la rilevanza dei secondary buy-out. Degna di nota l’incidenza del 12% delle situazioni in cui si è dato corso a operazioni di add-on nelle quali l’impresa, già partecipata da un investitore finanziario, si è resa protagonista di una o più acquisizioni.
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Investimenti in crescita, soprattutto stranieri
Nel ventennio analizzato il numero di investimenti è costantemente cresciuto. Si è passati infatti da una media di 6 operazioni all’anno nel quinquennio 2001-2005, a 11 nel periodo 2006-2015, per arrivare a 19 nel 2016-2018 e finire con 41 nel triennio 2019-2021. La conseguenza è che nell’ultimo quinquennio è avvenuto il 51% delle operazioni di tutto il ventennio. Ma sono stati il Covid e le successive turbolenze legate all’inflazione e al contesto geopolitico ad avere ulteriormente accelerato l’urgenza di crescita e managerializzazione delle medie imprese italiane. Il report evidenzia poi la crescente operatività di investitori finanziari stranieri. Se nel 2018 le operazioni concluse da soggetti esteri hanno rappresentato circa un quarto del totale, nel triennio 2019-2021 la quota è pressoché raddoppiata al 46%.
A livello geografico, la concentrazione delle imprese target è evidente. Il 60% delle operazioni si è localizzato infatti nelle tre regioni italiane a maggiore vocazione manifatturiera: Lombardia, dove ha sede il 29% delle mid-cap investite, Emilia-Romagna (16%) e Veneto (15%). Seguono il Piemonte, con il 12% delle operazioni e la Toscana (9%). A livello settoriale, il 45% delle aziende opera nella produzione di beni industriali (B2B), il 55% in quella di beni di consumo (B2C). Il 43% degli investimenti ha avuto a oggetto aziende con un fatturato medio inferiore a 30 milioni di euro; un ulteriore 33% ha riguardato quelle tra i 31 e i 60 milioni. Solo il 10% delle operazioni ha riguardato imprese con oltre 100 milioni. In particolare, gli investimenti esteri hanno coinvolto quelle di maggiori dimensioni: 66 milioni di fatturato medio contro i 48 milioni dei target degli operatori nazionali. A livello settoriale, le aziende del comparto alimentare sono le più grandi (69 milioni il fatturato medio), quelle del settore pharma e biopharma le più piccole (39,2 milioni).
I criteri di scelta
Il report evidenzia anche come siano tre i criteri centrali di selezione delle imprese target da parte dei fondi di private equity e degli altri investitori finanziari: ampia marginalità, ridotto indebitamento ed elevata propensione all’export. Infatti, nell’anno precedente l’ingresso dell’investitore, le aziende scelte hanno conseguito un Ebitda Margin medio del 12,7%, ampiamente superiore all’8,5% di quelle che non vedranno l’anno successivo l’ingresso di un investitore (il cosiddetto campione di controllo).
Non solo: sempre un anno prima, le imprese target riportano un rapporto tra posizione finanziaria netta (la Pfn) e l’Ebitda mediamente inferiore a 1,5 volte, anche in questo caso configurando un quadro molto più favorevole rispetto al rapporto pari a 3 volte caratteristico del campione di controllo. Ultimo, ma non meno importante: le imprese target ante ingresso hanno una significativa presenza sui mercati internazionali che si traduce in rapporto tra esportazioni e fatturato totale pari al 48,5%, con evidente scarto positivo nei confronti del 43% proprio del campione di controllo. Insomma, fa notare il report, i fondi di Pe e gli investitori finanziari operano uno scrupoloso screening delle imprese investibili, privilegiando quelle con profili economico patrimoniali d’eccellenza, secondo una logica di cherry picking.
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Una crescita sostenibile
Quanto agli effetti, oltre alla crescita del fatturato, dei dipendenti e del totale attivo, vi sono anche variabili che non manifestano un abbrivio diverso da quello del campione di controllo. È il caso, ad esempio, della propensione all’esportazione, della produttività e dell’Ebitda. Tuttavia l’analisi evidenzia un aspetto molto rilevante, che sfata il mito secondo cui gli investitori finanziari promuovono processi di crescita eccessivamente aggressivi e con smisurato ricorso alla leva finanziaria. Se infatti è vero che nel biennio post ingresso si rileva un incremento della Pfn del 63%, rispetto a un calo di pari grandezza del campione di controllo, la sua dinamica riflette però la struttura tipica dei leveraged buyout. La solidità del maggiore ricorso alla leva è infatti ben documentata anche dal fatto che il rapporto Pfn/Ebitda si fissa nel secondo anno post-investimento su un valore medio pari 2,4 volte (2,2 volte quello mediano), al di sotto della soglia (3 volte) oltre la quale si pongono problemi di sostenibilità. Ciò, quindi, dimostra come gli investitori finanziari, e in particolare quelli del private equity così rilevanti nel caso delle mid-cap italiane, abbiano storicamente fatto ricorso alla leva finanziaria in misura prudente e sostenibile.
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