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Mentre la conferenza ONU parte in salita, uno studio BCG mostra che basterebbe investire meno del 2% del prodotto interno lordo mondiale. Ma ci sono tre ostacoli
Non agire può costare carissimo. Da qui al 2010, l’immobilità climatica potrebbe infatti costringere il mondo intero ad affrontare perdite stimabili tra il 10 e il 15% del PIL globale. L’avvertimento arriva nel giorno di apertura della Cop29 di Baku da uno studio targato Boston Consulting Group, Cambridge Judge Business School e Cambridge ClimaTraces Lab, che sottolinea quindi l’importanza e l’urgenza di intraprendere azioni coordinate. Stando all’analisi intitolata ‘Why Investing in Climate Action Makes Good Economic Sense‘, basterebbe investire meno del 2% del prodotto interno lordo cumulativo in sforzi di mitigazione per limitare l’aumento della temperatura globale a meno di 2°C ed evitare così gli impatti economici.
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La Cop29 parte in salita
Mentre l’annuale conferenza delle Nazioni Unite sul clima parte già ‘zoppa’ vista l’assenza di tanti leader (da Ursula von der Leyen, all’uscente Joe Biden, passando per Lula, Putin, Modi, Xi Jinping, re Carlo, Macron e Scholz), i dati, di anno in anno, diventano più preoccupanti. “Assistiamo a un progressivo incremento nella frequenza e nell’intensità degli eventi climatici estremi: dal 2015, il numero di disastri naturali è salito del 15%, con un aumento del 205% nei costi economici e del 280% nelle vittime umane”, spiega Marco Tonegutti, managing director e senior partner di BCG. Che avverte: “Tardare l’adozione di misure necessarie per limitare il riscaldamento globale, esitando davanti ai costi iniziali richiesti per contrastare gli effetti del cambiamento climatico, porta a una risposta collettiva ancora troppo lenta: ogni ulteriore ritardo nell’azione aumenta i costi futuri e rende alcuni impatti irreversibili”.
In particolare, dall’11 al 22 novembre in Azerbaigian, i negoziatori delle 198 Parti dovranno trovare un accordo sulla definizione di un nuovo target per la finanza climatica, l’Ncqg (New Collective Quantified Goal). Si tratta, cioè, del finanziamento annuale che viene destinato dai Paesi più ricchi a quelli vulnerabili per gli aiuti contro gli effetti del climate change. L’obiettivo, secondo il think tank Ecco, è superare la quota di 100 miliardi dollari per il periodo 2010-2025 fissata alla Cop16 di Copenaghen nel 2009. Molti analisti ritengono però che la conferenza di quest’anno finirà per essere poco rilevante, in attesa di quella dell’anno prossimo, la Cop30 in Brasile, dove gli Stati dovranno aggiornare i loro impegni di decarbonizzazione, gli NDC (National determined Contributions). E sulla quale già aleggia l’intenzione di Donald Trump di uscire di nuovo dall’Accordo di Parigi.
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Due scenari
L’analisi confronta due scenari: uno che vede invariati gli attuali livelli di investimento nella mitigazione, che porterebbero a un aumento della temperatura di oltre 3°C entro il 2100, e uno scenario di azione, con investimenti sufficienti per limitare il riscaldamento a meno di 2°C. Lo studio ricava quindi il costo netto dell’immobilità, quantificando gli impatti economici evitati riducendo l’innalzamento della temperatura, e gli investimenti necessari in mitigazione e adattamento. Il bilancio non lascia spazio a dubbi: investire ora in azioni climatiche è economicamente conveniente. In assenza di nuove azioni, infatti, il mondo potrebbe subire perdite dal 16% al 22% del PIL cumulativo entro il 2100, equivalenti a una riduzione del tasso di crescita globale annuale di circa 0,4 punti percentuali. Di contro, impiegando meno del 2% del PIL mondiale fino al 2100, sarebbe possibile evitare perdite economiche stimate tra l’11% e il 13%.
Gli esperti precisano che, pur limitando il riscaldamento a meno di 2°C, saranno necessari investimenti in adattamento, poiché la temperatura continuerà a salire rispetto agli attuali 1,1°C, senza contare che alcuni costi riguardano emissioni del passato. Tuttavia le risorse necessarie sarebbero inferiori all’1% del PIL ed eviterebbero perdite decisamente più gravose, fino al 4%. Non solo. Anche in uno scenario inferiore ai 2°C, va considerato comunque un impatto economico residuo che varia dal 4% al 6% del PIL. Eppure, mantenere una traiettoria inferiore ai 2°C offrirebbe comunque un ritorno sociale da sei a dieci volte superiore rispetto ai costi sostenuti, senza tenere conto dei costi aggiuntivi di adattamento che si avrebbero in una situazione di inazione.
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Tre barriere all’azione climatica
Sono tre, secondo gli esperti, le principali barriere che frenano l’azione climatica. La prima è la comprensione incompleta dei costi dell’immobilità: non esiste infatti ancora un consenso scientifico sugli impatti economici del climate change e le stime attuali sono incerte. Il secondo ostacolo consiste nell’impatto disomogeneo e nei budget limitati: gli effetti del cambiamento climatico variano infatti a livello globale, influenzando le priorità di governi e aziende. Infine, pesano i bias umani verso il breve termine: la tendenza a focalizzarsi sul presente ritarda in ogni ambito l’azione su sfide a lungo termine.
Lo studio conclude quindi che per colmare il divario tra ambizione e azione, “sarà fondamentale sensibilizzare ulteriormente attraverso ricerche, per migliorare la comprensione degli impatti economici del cambiamento climatico”. Oltre a questo, viene poi indicata come cruciale anche l’implementazione di politiche efficaci, stabilendo meccanismi normativi che incentivino l’azione climatica. Infine, sarà decisivo coordinare gli sforzi globali, “collaborando per affrontare una sfida comune”.
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